La bufala del Russiagate scoppia, ma è minimizzata
Tempo di lettura: 3 minutiPochi ricorderanno il Russiagate, dal momento che l’informazione ormai ci ha abituato a una tempistica sincopata, fatta di notizie fatte esplodere nel villaggio globale per poi essere triturate in fretta e archiviate come cosa del passato.
E, però, la storia del Russigate va ripercorsa perché ha avuto un peso decisivo nella storia recente, tanto da cambiarla in maniera radicale. E la storia è semplice: all’inizio del mandato di Trump, il presidente americano fu fatto segno di un attacco pesantissimo, portato attraverso il famoso dossier Steele, che disvelava la laison tra Trump e la Russia.
Un dossier che puzzava di polpetta avvelenata lontano un miglio, come abbiamo scritto fin dalla prima ora, ma fa nulla: allora serviva per affossare Trump e così fu usato.
Le rivelazioni di Steele sono servite a rilanciare e a dare corpo al Russiagate, quando ormai questo scandalo iniziale, che voleva che Trump si fosse giovato dell’aiuto dei russi per vincere le elezioni, andava sgonfiandosi.
Ed è stato usato in maniera ossessiva, come una clava, per colpire il presidente degli Stati Uniti, diventando oggetto di approfondimenti insulsi e pezzi di opinione altrettanto insulsi, che però hanno imperversato per mesi sui media mainstream, risultando decisivi nella recente campagna presidenziale, insieme alla crisi pandemica.
Ora un giudice federale ha fatto luce sul documento, rivelando che la fonte che aveva permesso dell’ex spia britannica Christopher Steele di mettere insieme il dossier non era un imprenditore americano in affari con Mosca, ma un pataccaro, tal Igor Danchenko, un analista e ricercatore russo-americano, arrestato di recente.
Un arresto giunto dopo che si è scoperto che Danchenko aveva mentito all’Fbi sulle fonti da cui aveva attinto le notizie, corroborate da altre fonti interpellata da Steele altrettanto poco attendibili.
Non solo una patacca. Riportiamo quanto riferisce il Washington Post: “Il dossier Steele consisteva di informazioni grezze e suggerimenti non confermati da fonti non identificate, prodotto come parte di un progetto di ricerca sull’opposizione politica per conto di una società investigativa che lavorava per la campagna presidenziale di Hillary Clinton nel 2016”.
L’inchiesta potrebbe quindi riservare ulteriori sorprese, dato che è evidente che si è trattato di una manovra politica messa in campo dall’antagonista di Trump. Ma un conto è arrestare Danchenko, un conto sarebbe incriminare lo stesso Steele (che ha accreditato in modo evidentemente forzato le informazioni ricevute) e addirittura qualche potente vicino alla Clinton, che al momento sembra comunque intoccabile.
Ma al di là degli sviluppi, è interessante come i media mainstream, a iniziare dal Washington Post e dal New York Times, stiano minimizzando quanto sa venendo alla luce, riservando allo sviluppo imprevisto qualche articolo a margine.
Più onesto, il Wp, ha deciso di riscrivere gli articoli di allora, correggendo parzialmente la narrazione, mentre il Nyt si è semplicemente interrogato su come sia stato possibile che dei cronisti, in assoluta buona fede, abbiano preso per buona una bufala del genere.
Il punto è che non possono certo ammettere che tali cronisti non erano affatto in buona fede, anche perché non si tratta di semplici articoli, ma di una vera e propria campagna giornalistica che vedeva coinvolta quasi tutta la redazione, a iniziare dai proprietari e dai direttori, che hanno deciso di usare quel dossier come notizia del giorno per mesi, nonostante, va ripetuto, anche un novellino dell’informazione si sarebbe accorto che era una patacca.
Non diverso è il discorso per i media nostrani, che certo non avevano interessi specifici nella vicenda, ma che soffrono di certi condizionamenti: se una notizia la dà il Nyt o il Wp è vera, punto e basta, e ci si adegua. Soprattutto se tale notizia è avversa a certi personaggi invisi al mainstream.
Questa la stampa che negli ultimi tempi si sta prodigando in un’ossessiva campagna anti-fake News… Tant’è.
Vada come vada, il dossier Steele passerà alla storia come le famose “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E, come per la bufala di allora, nessuno dei cronisti che hanno brandito il dossier ne avrà nocumento, anzi, la loro penna condizionabile è rimasta e rimarrà a disposizione di quanti vorranno condizionarla.
Ps. Axios titola: “Il fallimento epocale dei media”. Nella nota, si legge: “Si tratta di uno degli errori giornalistici più eclatanti della storia moderna e la risposta dei media ai propri errori è stata finora tiepida”.