La crisi del Kazakistan e il dialogo Nato - Russia
Tempo di lettura: 4 minutiLa rivoluzione colorata che ha scosso il Kazakistan sembra sia in risacca. Solito corollario di morti, 26 tra i civili, un numero relativamente basso, anche se non per questo indifferente, e 12 tra le forze dell’ordine, che sono tanti, a dimostrazione che la rivolta non era poi così pacifica.
Per fare una comparazione, nell’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021, che pure è durato solo qualche ora e i ribelli non hanno usato armi, il rapporto tra le vittime contate tra le fila dei rivoltosi e le forze dell’ordine è di 4 a 1 – sempre che l’agente morto nella circostanza sia stato ucciso nei disordini e non abbia ragione invece l’autopsia che parla di ictus -, mentre nel caso kazako è di circa 2 a 1.
Abbiamo azzardato questo esempio perché proprio in questi giorni l’America sta ricordando la triste vicenda del 6 gennaio scorso con la solennità del caso.
Tornando al Kazakistan, i fatti sono alquanto noti: una protesta per l’aumento del prezzo del Gpl si è trasformata presto in una rivolta politica che ha incendiato le piazze della principali città, con assalti a supermercati, banche ed edifici pubblici.
Il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha tentato di sedare l’incendio accondiscendendo alle richieste della piazza e licenziando in tronco il governo, ma non è bastato.
E ora, dopo giorni di scontri, sembra che le autorità abbiano ripreso il controllo della situazione, grazie anche all’intervento delle forze della CSTO, organizzazione di mutuo soccorso militare formata da alcune ex repubbliche sovietiche a guida russa.
In attesa di sviluppi, alcune considerazioni. Anzitutto identificare il Kazakistan come uno stato satellite della Russia è del tutto errato. In realtà, staccatosi dall’Unione sovietica, il Paese è stato retto per trent’anni da un regime autoritario alquanto anomalo.
Nazarbayev e il flirt con l’Occidente
Nursultan Nazarbayev, l’autocrate di questo Paese, più esteso dell’Europa occidentale e quasi spopolato (19 milioni di abitanti), ha potuto dominare incontrastato grazie alla sua equidistanza tra Oriente e Occidente, a cui forniva il suo petrolio e soprattutto il suo prezioso uranio, del quale è il primo produttore mondiale.
Anzi, per tanti anni ha flirtato più con l’Occidente che con Mosca, come dimostra il ruolo di consigliere che Nazarbayev ha affidato dopo il 2011 a Tony Blair (The Guardian), garantendosi l’indulgenza dell’Occidente al suo regime oppressivo.
Una prossimità che va tenuta presente anche per capire quanto sta avvenendo ora. Il nuovo presidente kazako, Tokayev, fu intronizzato dallo stesso Nazarbayev nel marzo del 2019.
Portando sugli scudi un suo delfino, Nazarbayev reputava di mantenere il Paese nella sua ombra, tanto che aveva preteso e ottenuto di conservare a vita la carica di presidente dello strategico Consiglio di sicurezza.
Subito dopo la rivolta, Tokayev ha lo ha però destituito, licenziando al contempo il capo del Comitato per la sicurezza nazionale, il potentissimo Karim Masimov, anche lui della vecchia guardia (Eurasianet).
Se questa cronaca dice qualcosa – e qualcosa dice -, è presumibile che Tokayev ritenga che i vecchi apparati abbiano avuto un qualche ruolo in questa ribellione.
Si ricordi, per esempio, come la rivoluzione colorata tentata dai neocon americani in Venezuela nel 2019 godesse del supporto del capo dei servizi segreti venezuelani, la famigerata Sebin, come rivelato dal Washington Post.
Anche allora, la prima contromossa della presidenza fu quella di destituire il capo dei servizi segreti, uno schema che si è appunto ripetuto in Kazakistan. Ma Tokayev ha evitato di lanciare accuse contro tali servizi, limitandosi a sostenere che a tessere le fila della rivoluzione sia stato un Paese straniero (1).
Sul punto ha aggiunto che “tra i rivoltosi, oltre a miliziani (2), c’erano anche specialisti formati nel sabotaggio ideologico, che hanno usato abilmente la disinformazione e le ‘Fake news’, ed erano in grado di manipolare i sentimenti delle persone. Sembra inoltre che sia la loro formazione che la loro leadership abbia un’unica centrale di comando” (Ria Novosti).
Ovviamente, tutto ciò riconduce agli Stati Uniti, esplicitamente accusati di aver messo in campo i suoi specialisti. E, come sempre, le accuse sono state respinte al mittente, con un diniego che però appare convincente.
La distensione Usa – Russia
Per capire quanto sta avvenendo, infatti, non si può dimenticare quel che sta accadendo nel mondo: Il 10 gennaio la Nato e la Russia dovrebbero tenere dei colloqui volti a stabilizzare le tensioni di questi anni.
Un obiettivo perseguito con determinazione sia dall’amministrazione americana che dalle autorità russe, ma ferocemente avversato dai falchi Usa, che vorrebbero tenere aperta la conflittualità ucraina per tenere Mosca sotto pressione.
Tali ambiti hanno influenza sullo Stato profondo americano e possono muoversi anche al di là delle direttive del potere centrale (l’impero non è monolitico).
Così è possibile che il Kazakistan abbia visto ripetersi lo scenario già visto in Venezuela, quando Trump subì il tentato golpe contro il presidente Maduro (The Atlantic), con i neocon a muovere le fila di un’operazione organizzata contro i desiderata dell’imperatore (peraltro, l’attuale Segretario di Stato Antony Blinken, uomo forte dell’amministrazione, in questi giorni era “distratto” a causa di un focolaio Covid scoppiato nel suo entourage).
Ma anche al di là di tali eventuali retroscena, la crisi kazaka, di fatto, è una bomba lanciata contro il processo di distensione avviato dall’amministrazione Usa, che rischia di far saltare il riavvicinamento Nato – Russia.
(1) Evitando di accusare gli avversari interni, Tokayev sembra ripercorrere, in piccolo, la strada di Putin, il quale, eletto presidente della Russia in qualità di delfino di Eltsin, imboccò una direttrice in netto contrasto con quella tenuta dal suo apparente mentore, che ha però trattato sempre con la deferenza del caso.
(2) Non bisogna dimenticare che in Kazakistan c’è una forte presenza di milizie armate. Sul punto rimandiamo a un articolo di Foreign Policy del 2017 dal titolo: “Il nostro futuro sarà un estremismo violento”. Sottotitolo: “Il Kazakistan, lo stato più stabile dell’Asia centrale, si sta rendendo conto che l’estremismo islamico ha piantato le sue radici ed è lì per restare”.