La no-fly zone intellettuale sulla mistica Ucraina
Tempo di lettura: 3 minutiRiportiamo ampi brani di un articolo di Stephen Kinzer pubblicato su Responsible Statecraft: “Mentre la guerra infuria in Ucraina, tutto è beatamente pacifico sul fronte interno. Gli americani hanno abbracciato la narrativa ufficiale. Nessun film western ha mai tracciato la linea del bene contro il male in modo così chiaro e netto. La Casa Bianca, il Congresso e la stampa insistono sul fatto che l’Ucraina è la vittima innocente di un’aggressione non provocata, che le forze russe minacceranno tutta l’Europa se non vengono fermate e che gli Stati Uniti devono stare con l’Ucraina ‘per tutto il tempo necessario’, per ‘assicurarne la vittoria’.”
“Dissentire da questo consenso è quasi impossibile. Anche prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003, solo alcune voci solitarie avevano chiesto moderazione. Da quando siamo entrati nella guerra in Ucraina, tali voci sono ancora più difficili da rinvenire”.
“Oggi è considerato eretico, se non addirittura un tradimento, insinuare che tutte le parti coinvolte nel conflitto ucraino abbiano qualche colpa, sostenere che gli Stati Uniti non dovrebbero riversare armi sofisticate in una zona di guerra aperta, o chiedersi se abbiamo un interesse vitale sull’esito di questo conflitto. Una no-fly zone intellettuale rigidamente imposta ha quasi soffocato il dibattito razionale [e internazionale, si può aggiungere ndr] sull’Ucraina”.
“Nelle stanze del potere politico di Washington, l’Ucraina è diventata un’idea quasi mistica. Più che un luogo geografico, è un piano cosmico dove si sta svolgendo una battaglia decisiva per il futuro dell’umanità. La guerra è vista come una gloriosa opportunità per gli Stati Uniti per far sanguinare la Russia e dimostrare che, sebbene l’equilibrio del potere mondiale possa cambiare, noi continueremo a governare”.
Il buono e il brutto – cattivo
“L’esplosione di amore appassionato dell’America per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato il trionfo di un’irresistibile campagna mediatica. È stato presentato come il nuovo eroe globale della libertà. Da un giorno all’altro la sua immagine è comparsa su tutte le vetrine dei negozi e sui siti internet”.
“Nell’angolo opposto c’è un’altra caricatura, il presidente russo Vladimir Putin, ritratto come il compendio di tutte viltà e degenerazioni. Ciò soddisfa il nostro bisogno di concentrare l’odio non su un paese, un movimento o un’idea – troppo diffuso [si diluirebbe ndr] – ma su un individuo. Per anni ci siamo crogiolati sulla nostra superiorità morale verso pittoresche nemesi come Castro, Gheddafi e Saddam Hussein. Putin si inserisce perfettamente in questa costellazione. Avere un nemico così malvagio, da cartone animato, è rassicurante quasi quanto avere il santo Zelensky come alleato“.
“Nessun paese in guerra, direttamente o per procura, incoraggia il dibattito” interno sulla stessa. “Gli Stati Uniti non fanno eccezione. Abraham Lincoln e Woodrow Wilson imprigionarono quanti criticavano le guerre da essi intraprese. Alcuni oppositori della guerra del Vietnam furono perseguitati. La spettrale assenza di dibattito sul nostro coinvolgimento in Ucraina segna l’ultima vittoria della creazione di una narrativa ufficiale“.
Quindi, dopo aver accennato al fatto che la costruzione del cattivo era facile, dal momento che la propaganda della Guerra Fredda aveva creato le basi psichiche per accogliere l’idea del malvagio russo, e dopo aver aggiunto che la propaganda appartiene alla politica, da cui una certa giustificazione dei politici che la brandiscono, Kinzer si interpella sul ruolo della stampa.
Questa, piuttosto che “porre domande scomode” è diventata per lo più la cinghia di trasmissione del potere, modulando una narrazione dove tutto l’errore sta da una parte, la Russia, e tutto il buono dall’altra, l’Ucraina. Ciò anche perché i media sembrano credere di essere parte di una squadra, così che vincere la partita con la Russia supera la necessità di dare informazioni il più possibile veritiere.
“Questa visione – scrive Kinzer – è la morte del giornalismo. La stampa non dovrebbe essere nella squadra di nessuno. Il nostro compito è sfidare le narrazioni ufficiali, non amplificarle senza pensare. Questa è la differenza tra giornalismo e pubbliche relazioni“.
L’informazione, non più base della democrazia, ma minaccia
Così, “nessun grande giornale sembra porre domande fondamentali su questa guerra”. E le elenca, ma su tale elenco, che può essere facilmente essere immaginato, rimandiamo al testo integrale. Resta appunto, che questa guerra ha proseguito l’opera di demolizione della libertà di stampa già iniziata con le guerre infinite e la pandemia.
Sebbene media e giornalisti possano sbizzarrirsi su temi secondari e/o futili, dalla cronaca nera al gossip, sui temi essenziali, quelli che il potere giudica tali, sono chiamati, appunto, a essere semplici strumenti di PR, pena la loro esclusione dal pubblico proscenio (e altro e più inquietante).
D’altronde a forza di esportare la democrazia con le bombe in mezzo mondo, lo stesso concetto di democrazia in Occidente si è modificato e ha dato vita a prassi che un tempo erano proprie dei Paesi autoritari. Una di queste è la censura, applicata in forme soft, ma molto più efficaci di quelle in vigore negli Stati autoritari.
Sul punto si può notare, solo per fare un esempio, uno strano capovolgimento. Un tempo si diceva che la libertà dell’informazione era essenziale per la tenuta di una democrazia, tanto da risultarne elemento essenziale. Ora, all’opposto, la libertà dell’informazione è rappresentata come una minaccia esistenziale della democrazia, tanto che il potere sta dispiegando risorse enormi per contrastarla.
Anche in questo caso la narrazione è essenziale: la caccia alle streghe dell’informazione prende il nome di contrasto alle Fake news. Tale operazione Verità, che sta desertificando i canali dell’informazione, ha un corrispettivo sovietico, essendo l’organo di informazione dell’URSS chiamato Pravda (Verità, appunto).