Le forze USA in Somalia alimentano il conflitto nel Paese africano
Tempo di lettura: 2 minutiA fine aprile la Camera degli Stati Uniti ha respinto, con voto bipartisan (321 contro 102), una mozione che richiedeva la fine dell’intervento Usa in Somalia, che si protrae ormai da quindici anni. Una delle tante missioni anti-terrorismo che gli Stati Uniti hanno dispiegato nel mondo dopo l’11 settembre e che, da temporanea, è diventata permanente.
E che, come è avvenuto in passato (Yemen) e avviene tuttora (Siria), invece di contrastare il terrorismo, lo alimenta. Nel caso somalo, tale perversa dinamica è stata evidenziata da un’autorevole istituzione americana. Riportiamo da Responsible Statecraft: “Secondo un nuovo rapporto del Costs of War Project, redatto da Ẹniọlá Ànúolúwapọ Ṣóyẹmí, il coinvolgimento militare, l’assistenza e l’addestramento degli Stati Uniti [alle autorità e alle forze locali ndr] hanno contribuito a perpetuare la guerra con al-Shabab” [le milizie islamiste somale ndr].
“Piuttosto che portare il paese più vicino alla pace e alla stabilità, la politica statunitense è stata invece uno dei motori del conflitto. Come dice Ṣóyẹmí, ‘Gli Stati Uniti non stanno semplicemente contribuendo al conflitto in Somalia, ma sono diventati parte integrante dell’inevitabile perpetuazione del conflitto somalo‘”.
Somalia: un errore che dura da quindici anni
Il punto, secondo il rapporto, è che è del tutto errata la politica dispiegata dagli Usa, dal momento che si limita a sostenere il governo centrale, che conta nulla, affrontando la variegata complessità socio-politica del Paese solo attraverso un approccio militare, vanificando la possibilità che possano intraprendersi vie alternative, fatte da politiche inclusive, “dal basso”.
“È altamente improbabile che le diuturne operazioni di addestramento e la spesa antiterrorismo Usa in Somalia, che seguono la linea perseguita in passato, possano produrre qualcosa di diverso dalla perpetuazione del conflitto e dei disordini”, si legge nel rapporto.
“Gli Stati Uniti – continua RS – devono considerare la possibilità che il coinvolgimento e l’addestramento militare non favoriscano la stabilità in casi come questo, e che si debbano cercare altri strumenti di governo oltre a quelli militari per gestire tali problemi”.
Nel caso specifico, prosegue RS, un esempio virtuoso – e sotto gli occhi di tutti – è il Somaliland, regione autonoma che è riuscita a trovare una soluzione alla conflittualità endogena attraverso strumenti politici e senza interventi esterni (almeno senza pesanti interferenze esterne).
I disastri dell’approccio militarizzato
“Gli Stati Uniti – conclude RS – hanno speso anni e miliardi di dollari per un infruttuoso approccio militarizzato al conflitto somalo. Le prove dimostrano che non ha funzionato e che non è probabile che possa funzionare in futuro. Gli Stati Uniti dovrebbero porre fine al loro coinvolgimento in questo conflitto, e non solo perché non ci sono interessi americani in gioco. Come dimostra il rapporto del progetto Costs of War, gli Stati Uniti stanno alimentando il conflitto e intralciando approcci alternativi che hanno dimostrato di funzionare altrove”.
Da ultimo, un significativo cenno di RS. Sotto la presidenza Trump l’attività militare Usa nella regione ha raggiunto il picco; però, “negli ultimi mesi della presidenza, egli ha dato ordine di ritirare le forze statunitensi dalla Somalia. Ma, di fatto, i militari hanno continuato la loro missione ‘facendo la spola’ dalle basi di Gibuti e del Kenya”. Anche qui, com’è successo in Siria (vedi DefenseOne), l’ordine di ritiro del presidente Trump è stato disatteso dai militari.
Ma “il presidente Biden ha poi annullato il quasi ritiro di Trump e ha ripreso la precedente presenza militare nel paese”. A proposito dell’ordine internazionale basato sulle regole tanto caro all’attuale inquilino della Casa Bianca.