Gaza: Israele sospende i negoziati, la parola resta alle bombe
Tempo di lettura: 3 minutiContinuano a cadere le bombe su Gaza e i missili in territorio israeliano, 30 i morti nella Striscia, tra cui donne e bambini, con numeri in aumento, e uno in Israele. Il negoziato, aperto appena iniziato lo scontro, è stato sospeso da Tel Aviv, che non vuol cedere alle richieste dell’antagonista e probabilmente intravede guadagni a portata di mano in uno scontro prolungato.
Netanyahu e il ministro della Difesa israeliano Gallant parlano di una campagna prolungata contro Gaza per colpire la Jihad islamica. Per ora Hamas, la più potente milizia islamica della Striscia, sembra non essere della partita, anche se è di oggi l’attacco, riuscito, a un centro operativo dell’esercito a Nahal Oz, che i media israeliani attribuiscono a un’azione congiunta Jihad-Hamas.
In morte dei bambini di Gaza
Terribile, su Haarez, l’atto di accusa di Yossi Klein sulle morti dei bambini innocenti di Gaza, che inizia così: “Non c’è niente come uccidere bambini per riunire cuori e menti. Nelle ultime 18 settimane, noi israeliani ci siamo combattuti l’un l’altro, incapaci di trovare qualcosa che ci accomuni. Poi è arrivata l’uccisione dei bambini nella Striscia di Gaza a dimostrare che dopotutto siamo fratelli”.
Troppo generalizzato il suo giudizio, basta uno sguardo ad altri articoli del suo giornale per capire che tanti in Israele, con sfumature diverse, stanno piangendo i fanciulli che cadono sotto i bombardamenti: “Israele fa pagare ai bambini di Gaza i peccati dei loro padri”, è il titolo di un articolo di Carolina Landmann; “Manifestanti israeliani, dovete esigere: niente più raid su Gaza, niente più bambini morti”, titola un articolo di Anat Kam. Potremmo continuare.
Ma lo scritto di Klein colpisce nel profondo. L’uccisione dei bambini, secondo l’autore, non sarebbe casuale: “Uccidere i bambini è studiato per causare dolore, per colpire il punto più sensibile di tutti. Non è studiato per fermare il terrorismo; è studiato per scoraggiare i terroristi”. Troppo forte, forse, ripetiamo, come j’accuse, ma descrive in maniera plastica l’orrore indicibile che trasuda anche dalle pagine del giornale israeliano.
Per toccare il livello politico di quanto sta avvenendo, citiamo l’editoriale odierno di Haaretz, che spiega: “Il primo ministro ha tratto un duplice vantaggio dal conflitto : ha allentato le crescenti tensioni all’interno della coalizione e ha distolto l’attenzione dell’opinione pubblica dalla riforma giudiziaria”, che ha suscitato proteste mai viste prima in Israele.
In effetti, in serie difficoltà per le proteste e le pressioni interne al suo governo, Netanyahu è potuto tornare ad interpretare il ruolo di “mister Sicurezza”, che tanto successo gli ha attirato, come si evince da una nota dell’agenzia Walla. Sulla stessa agenzia le parole di Netanyahu: “La campagna continuerà fino a quando sarà necessario”. L’uso della parola d’ordine forgiata per delineare il sostegno Nato all’Ucraina crea un parallelo alquanto evocativo.
Déjà-vu
Il governo, e le forze di opposizione che sostengono con fermezza i raid – come ricorda. peraltro, l’editoriale di Haaretz – affermano che l’operazione è necessaria alla sicurezza di Israele. Certo, piovono missili. Ma il ciclo di violenze reciproche non si risolve con un approccio esclusivamente militare.
Sul punto, Alon Pinkas, sempre su Haaretz, annota: “È un altro Déjà Vu come l’ultima fiammata di Gaza”. E spiega che, “a livello politico è un altro esercizio futile, solo un preambolo al prossimo round di scontri”. Dello stesso parere Amos Harel, che scrive: “Se le operazioni israeliane a Gaza hanno così tanto successo, perché le lancia una volta all’anno?”.
Nell’articolo si spiega che non c’è una strategia a lungo termine, “nel migliore dei casi, [le autorità israeliane] si aspettano che le aggressioni militari contro le organizzazioni palestinesi reimposteranno l’equilibrio della deterrenza – in altre parole, aumenteranno le possibilità di imporre la quiete al confine per alcuni mesi”.
E spiega come, analogamente a quanto avvenuto per i precedenti scontri, Tev Aviv conti sul fatto che Hamas resti in disparte, limitandosi a sostenere solo verbalmente le milizie della Jihad. Tanto che, aggiunge, l’esercito israeliano “ha addirittura fatto cadere la tradizionale narrativa che attribuisce ad Hamas la responsabilità di quanto accade a Gaza in forza del fatto di esserne il potere dominante”.
“In fin dei conti – continua Harel – nonostante tutte le autocelebrazioni di Israele, anche a Gaza si è capito che Gerusalemme preferisce non scontrarsi direttamente con Hamas”.
Considerazioni di certo interesse, perché se anche Hamas decidesse di entrare direttamente nell’agone, il livello dello scontro si alzerebbe in maniera esponenziale, come esponenzialmente aumenterebbero le vittime, bambini compresi (500 ne morirono nel conflitto del 2014). E sarebbe più arduo chiudere il conflitto.
Ma, al di là di tali considerazioni, restano gli orrori della guerra. E la speranza che possa finire a breve.