Negoziati per Gaza. La variabile dell'eccezionalismo USA
“Media egiziani: nel corso dei negoziati in corso [in Qatar ndr] si sta parlando anche di soluzioni per porre fine alla guerra e togliere l’assedio a Gaza”. Questo un lancio di al Mayadeen. Che ci sia qualcosa di fondato in questa notizia è dimostrato dalle dichiarazioni di Itama ben Gvir, che ha minacciato di far cadere il governo (di cui è parte) se l’offensiva di Gaza non riprenderà.
Nel riferire il monito del leader di Otzma Yehudit, il Timesofisrael spiega che l’eventuale rescissione potrebbe essere compensata dal sostegno di Unità nazionale, guidato da Benny Gantz, già membro del gabinetto di guerra.
Non è così facile, perché Ben Gvir potrebbe essere seguito dal partito di Bezalel Smotrich, che difficilmente lascerà al suo collega-antagonista la palma dell’unico difensore della Grande Israele. Da cui diverse problematiche per tenere in piedi il governo, con conseguenze sulla possibilità di portare avanti un eventuale processo di pacificazione.
Negoziati: il nodo Netanyahu
Inoltre, è da vedere se Netanyahu si piegherà a chiudere la partita, che lo condannerebbe alla morte politica. Questione delicata, dal momento che il premier israeliano sembra ancora decisivo per le sorti del conflitto. Più che probabile che si stia lavorando a un compromesso, ma è ovvio che Netanyahu non accetterà facilmente un banale salvacondotto. Il re vuole continuare a regnare a tutti i costi.
Di interesse, su Netanyahu, un’indiscrezione dei media israeliani: in diversi incontri riservati con gli esponenti del suo partito, il Likud, ha affermato: “Sono l’unico che può impedire la nascita di uno Stato palestinese a Gaza [e in Cisgiordania] al termine della guerra”.
Da notare che la spinta alla creazione di uno Stato palestinese è l’argomento principe usato dall’amministrazione USA per blandire i Paesi arabi furibondi per l’eccidio di Gaza.
Nella prospettiva dell’amministrazione americana tale Stato dovrebbe realizzarsi con l’ausilio delle nazioni arabe di rito sunnita, che dovrebbero provvedere a finanziarlo e, di fatto, metterlo sotto la propria tutela (cioè un servaggio non più diretto, ma indiretto). Tale sviluppo creerebbe le basi per un fecondo rapporto tra i Paesi arabi in questione e Israele, creando una solida asse contrapposta all’Iran e ai suoi alleati regionali.
Thomas Friedman e l’eccezionalismo che incombe su Gaza
Tale scenario è descritto da Thomas Friedman sul New York Times, così che la tragedia palestinese è usata per far ritornare il Medio oriente alla status quo ante, prima cioè dei vari processi che hanno visto l’Arabia saudita e gli Emirati arabi aderire ai Brics e riallacciare i rapporti con l’Iran e il ritorno di Assad nell’ecumene arabo, con conseguente indebolimento dell’influenza statunitense nella regione.
In tal modo gli Stati Uniti sembrano più preoccupati di tutelare i propri interessi che quelli del popolo palestinese. Inoltre, la riproposizione della contrapposizione Riad – Teheran incenerirebbe i processi distensivi di cui sopra, forieri di benefici per la tormentata regione.
Nella migliore delle ipotesi, il disegno statunitense potrebbe portare a una sorta di Yalta mediorientale, nella peggiore a una guerra regionale su grande scala con l’Iran, come implicitamente accenna anche Friedman nel suo scritto.
L’impero d’Occidente resta, dunque, nella sua pretesa di poter disegnare il destino dei Paesi che ha scelto come colonie e ciò non aiuta a risolvere problemi, men che meno l’annosa e luttuosa criticità palestinese. Anche perché Washington, da sola, non ha la forza di costringere – è il caso di dire – Israele ad accettare uno Stato palestinese, che rimarrebbe una promessa, un orizzonte lontano e inarrivabile com’è stato finora.
Con tutte le conseguenze che ciò comporta per il popolo palestinese, che rimarrebbe comunque imbrigliato nei ristretti orizzonti altrui, in particolare quelli israeliani, e che continuerebbe a reclamare il suo Stato, con un prolungamento della conflittualità presente sotto altra forma.
La nazione indispensabile
Il punto della questione è che il conflitto israelo-palestinese è problema globale e andrebbe risolto a tale livello. L’altro è che gli Stati Uniti, nonostante i tanti rovesci, non recedono dalla loro pretesa di egemonia globale, che gli dà titolo per ingerirsi in tutte le problematiche del mondo e tentare di modellarlo secondo i propri desiderata; né recedono dal loro “eccezionalismo”, con la parallela pretesa di essere gli unici a poter risolvere i problemi globali, da cui consegue la follia religiosa della “nazione indispensabile”.
Quest’ultima vena di follia fu introdotta nella politica estera americana da Madeleine Abrigth, Segretario di Stato con Bill Clinton, e portata avanti nell’era di George W. Bush grazie anche a Condoleeza Rice, che di quella amministrazione fu Consigliere per la Sicurezza nazionale e poi Segretario di Stato (sua la formula del “caos costruttivo” che avrebbe creato un nuovo Medio oriente).
Come denota quanto sopra, la dottrina dell’indispensabilità degli Stati Uniti unisce l’establishment di democratici e repubblicani, ma nel caso specifico le due donne avevano anche altro in comune, essendo la prima figlia di Joseph Korbel, che da fondatore e professore della Graduate School of International Studies di Denver ebbe come allieva prediletta la Rice, che ebbe così modo di conoscere e frequentare Medeleine. Le due donne erano cosi unite che in una cerimonia ufficiale, la Abrigth arrivò a chiamare Condoleeza “sorella mia“.
Accenniamo a questa comunanza come nota a margine perché offre uno spaccato del potere imperiale, che in questa fase di decadimento diventa sempre più chiuso e autoreferenziale, da cui certe visioni e pulsioni malate.