La tragedia di Gaza e la diplomazia internazionale
Prosegue la mattanza di Gaza. Arduo trovare altro termine. Le autorità israeliane hanno reso pubblica una mappa di zone sicure per i palestinesi in fuga dalle bombe: 663 le aree segnalate, che in teoria dovrebbero minimizzare le perdite mentre altrove infuria la guerra. Infatti, una centrale dell’IDF (Israel defence force), alla quale sono convogliate informazioni di cellulari, droni e quanto altro, dovrebbe avvertire via via i palestinesi dove andare per sfuggire agli ordigni.
La tragedia di Gaza sud, nessun luogo sicuro
La mappa di cui sopra, ironizza Anshell Pfeffer su Haaretz, era stata creata mezzo secolo fa per segnalare le aree edificabili a Gaza al tempo dell’occupazione israeliana. E sulla sua efficacia appare esaustivo il titolo dell’articolo: “La confusa e ironica mappa di evacuazione dei palestinesi di Gaza elaborata dall’IDF”.
Infatti, è tale la confusione delle indicazioni date ai palestinesi, che i benefici per la popolazione sono più che limitati (per usare un eufemismo). Lo accenna Pfeffer nel suo pezzo, lo descrive con più chiarezza il Washington Post: “Gli abitanti di Gaza […] raccontano che il sistema high-tech israeliano non è stato all’altezza della brutale realtà della campagna militare. Nel caos dei combattimenti, le direttive israeliane sono confuse, vaghe o contraddittorie, hanno detto, tanto che spesso li hanno mandati da un campo di battaglia all’altro”. Sul tema anche la Reuters, che titola: “Israele ordina agli abitanti di Gaza di fuggire e bombarda laddove li indirizza”.
Non solo le bombe. Al Jazeera riporta le parole di Volker Türk, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il quale, parlando della situazione degli sfollati, ha affermato: “I palestinesi di Gaza vivono un orrore sempre più profondo”, a causa delle tante privazioni che li affliggono e che li condannano a sopravvivere in condizioni insalubri, sovraffollate, antigeniche e senza alcuna sicurezza. “I miei colleghi – ha aggiunto – descrivono la situazione come ‘apocalittica’. In queste circostanze, esiste un rischio ancora più alto di crimini atroci”.
Amira Haas, su Haaretz, ha fatto un calcolo dettagliato riguardo al sovraffollamento al quale sono costretti i civili di Gaza in fuga dalle bombe: “Lo scenario horror del sud di Gaza: 18.000 persone per km quadrato senza acqua né elettricità”. E ha ammonito le autorità israeliane che, anche se al momento tante situazioni possono passare sottotraccia, a fine guerra i relativi dossier saranno sulla scrivania di “ogni ministro degli Esteri e in ogni redazione di giornale del mondo” (forse per questo nessuno ha il coraggio di cacciare Netanyahu, al quale saranno attribuiti tutti questi crimini, come avvenne per Sharon per l’eccidio di Sabra e Shatila…).
Secondo Hamas, ad oggi sono 16.248 le vittime palestinesi, di cui 7.112 bambini e 4.885 donne (Guardian). Finora i numeri riferiti da Hamas si sono rivelati affidabili. E tali numeri non sono accettabili.
Diplomazia in azione
Di oggi una conversazione telefonica tra il Segretario di Stato Usa Antony Blinken e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi nella quale i due hanno concordato sulla necessità di una de-escalation del conflitto. Ma mentre Blinken ha fatto sapere che l’imperativo è circoscrivere la guerra, il diplomatico cinese ha affermato che urge un “cessate il fuoco e porre fine alla guerra il prima possibile”. Divergenze che appaiono sostanziali, ma è pur vero che Blinken non poteva dire altro: ad oggi Washington ufficialmente sta chiedendo solo una maggiore protezione dei civili, non una tregua.
Resta che esiste una divergenza aspra tra Washington e Tel Aviv, come annota anche il New York Times, e non sembra limitarsi solo alla richiesta di moderare l’uso della forza. Tanto che, annota il giornale della Grande Mela, “per il momento, Biden ha lasciato ai subordinati il compito di trasmettere pubblicamente i messaggi più duri”. Probabile che sulla tregua si registri un braccio di ferro anche nel cuore dell’impero. ma già l’aspra divergenza tra Washington e Tel Aviv è un fatto rilevante.
Da ultimo, e non da ultimo, va registrato il viaggio di Putin in Medio oriente, il primo dall’inizio della pandemia, come annota l’Associated press. Il presidente russo è atterrato ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati arabi uniti, che ospita l’assise sul clima della COP28 delle Nazioni Unite, dove ha incontrato Mohammed bin Zayed, presidente del Paese arabo.
Successivamente, lo zar si è recato a Riad per incontrare il principe ereditario Mohammed bin Salman, particolare che segnala come il suo viaggio prescindeva dall’assemblea dell’Onu, ma fosse decisamente politico. La Russia fin dall’inizio del conflitto ha chiesto il cessate il fuoco a Gaza e la visita di Putin non può che gravitare intorno a tale criticità, che sta sconvolgendo la regione.
Gli Stati Uniti da soli non possono imporre una soluzione alla tragedia di Gaza. La loro impotenza – o scarsa influenza o disastrosa miopia che dir si voglia – è palese. Serve un impegno globale, come avveniva al tempo della Guerra Fredda, durante la quale URSS e Stati Uniti riuscivano a trovare compromessi sulle crisi regionali e a imporli anche ai più recalcitranti.
A quanto pare, qualcosa si sta muovendo a livello internazionale, anche se gli attori più autorevoli della scena globale attuale sono altri da allora e le divergenze tra essi più aspre. Nel buio, una flebile speranza.