14 Dicembre 2023

Prigozhin, il cavallo perdente della controffensiva ucraina

Zelensky, a Washington per ricevere istruzioni e tentare di salvare la pelle. Cronache di una controffensiva fallita. Prigozhin, il cavallo perdente.
Prigozhin, il cavallo perdente della controffensiva ucraina
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L’amministrazione Biden continua a esercitare pressioni sul recalcitrante Congresso perché approvi nuovi aiuti a Kiev, senza i quali la guerra è persa. Tentativo nel quale è stato coinvolto Zelensky, volato a Washington per ricevere istruzioni e tentare di salvare la pelle – per ora solo a livello politico – messa a repentaglio in patria da emergenti antagonisti che gli rinfacciano i devastanti errori strategici.

Intanto, gli USA inviano in Ucraina un loro generale per mettere un po’ d’ordine nella colonia. Due le ipotesi: aprire le trattative con i russi – ma Washington sta tentando di tutto per evitarlo – o proseguire la guerra attestandosi sulla difensiva in attesa delle presidenziali americane (poi si vedrà).

Il tenente generale Antonio Aguto Jr., al centro, con il segretario alla Difesa Lloyd Austin.

Cronache di una controffensiva fallita

Restano le tante perplessità sulla fallita controffensiva ucraina. Infatti, il Washington post in due corposi articoli ha evidenziato tutti gli errori commessi e la feroce contesa sulla strategia da adottare che si è accesa tra la leadership politica ucraina e i suoi generali, e tra questi e l’America; errori che hanno portato le truppe di Kiev al macello.

Ma non sono privi di errori neanche questi articoli né alieni da derive propagandistiche, avendo addossato tutte le colpe ai generali e a Zelensky, e più ai primi che al secondo, ma evitando di mettere in luce che tutte le mosse dell’esercito ucraino erano vigilate attentamente da Washington, sia attraverso inviati in loco sia nelle segrete stanze del Pentagono (vedi: “Centro top secret al Pentagono: segue la guerra in tempo reale“).

Ma al di là delle banalità dei media mainstream, i dubbi su quanto accaduto sul fronte ucraino restano. Era ovvio che le forze di Kiev, anche con gli armamenti NATO, non avrebbero ottenuto la vittoria. Lo sapevano tutti, lo avevano rivelato anche i documenti segreti trafugati dal Pentagono e messi in circolo praticamente in costanza dell’offensiva.

Certo, i liberal-neocon, che hanno gestito questa guerra, sono falchi da salotto, incapaci di vincere i conflitti che iniziano, ma non era possibile che essi e l’U.s. Army ponessero cosi a rischio l’impero sul quale dominano, portandolo a una sconfitta tanto annunciata e tanto devastante, con conseguenze altrettanto devastanti per l’Impero. Tutto ciò resta inspiegabile.

Forse a spiegare tanta apparente leggerezza può aiutare l’indicibile, che si può intuire da un cenno di un articolo di Strana del 24 agosto scorso e che riguarda il tentato golpe di giugno scorso messo in atto dal capo della Wagner Yevgeny Prigozhin: “I preparativi per la ribellione non erano più un segreto per l’Ucraina dall’inizio di maggio. Kiev, a giudicare dalle dichiarazioni degli ucraini, scommetteva molto sul conflitto interno alla Federazione Russa, che avrebbe dovuto essere la chiave per il successo della controffensiva“.

Già, la controffensiva iniziava il 4 giugno, ma già a maggio gli ucraini sapevano di Prigozhyn e del suo prossimo tentativo di rovesciare Putin. E se in Ucraina lo sapevano e ne parlavano (!) a maggio è davvero arduo pensare che le intelligence NATO non lo sapessero da ben prima (la Cia ha comunicato di averlo appreso solo due giorni prima… ma se a maggio lo sapevano gli ucraini?). Così si può tentare di avanzare un’ipotesi.

La mossa di Bakhmut

Prigozhyn – che nel settembre 2023 il Jerusalem Post metteva al 52° posto tra gli ebrei più influenti del mondo (classifica nella quale non figurava Zelensky, primo l’anno precedente) – da tempo aveva preso a inveire contro le autorità russe.

Così Strana: fin dall’inverno del 2022 “Prigozhin aveva iniziato ad accusare la leadership militare della Federazione Russa – vale a dire Shoigu e Gerasimov – di ‘ostacolare’ il rifornimento di munizioni destinato alla Wagner. Parallelamente, una rete di canali telegram, corrispondenti militari e blogger, finanziata da Prigozhin, lanciava una campagna su larga scala per screditare il comando dell’esercito e, allo stesso tempo, esaltare i meriti di Wagner e di Prigozhin in particolare”.

Un’operazione, dunque, che parte da lontano ed è ben sostenuta dal web. Per Strana, l’obiettivo di Prigozhyn era quello di cacciare i due in questione per prendere il controllo dell’esercito russo o facilitare l’ascesa a tali alti incarichi dei suoi padrini incistati nella nomenclatura russa. Ma prendere il controllo dell’esercito, a Mosca più che altrove, voleva dire prendere il controllo della Russia (Putin, se gli fosse andata bene, sarebbe finito in un angolo).

Fallito tale obiettivo, poco prima dell’inizio della controffensiva, Prigozhyn alza notevolmente i toni dello scontro, ma soprattutto annuncia che le sue truppe avrebbero abbandonato Bakhmut, “esponendo sostanzialmente il fronte” russo all’offensiva.

Sempre a maggio, “si sono intensificati i raid di droni su Mosca e le azioni dell’RDK [i cosiddetti partigiani russi filo-ucraini ndr.] nella regione di Belgorod, che hanno  giocato attivamente nelle mani di Prigozhin, permettendogli di accusare la leadership militare della Federazione Russa di incompetenza”. Non solo, Prigozhyn aveva chiesto a gran voce che la sua Wagner fosse schierata nella regione per contrastare le incursioni dell’RDK.

La mossa di Belgorod

La richiesta di Prigozhyn, vista in retrospettiva, evidentemente mirava a schierare la Wagner su un fronte interno più ampio per facilitare il putsch successivo. Le autorità russe, diffidando, non la presero in considerazione. Anzi Ramzan Kadyrov, che già si era detto disposto a mandare i suoi ceceni a controllare Bakhmut al posto della Wagner, si frappose un’altra volta dicendosi pronto a schierarli nel territorio di Belgorod al posto dei wagneriti (la lotta tra i due signori della guerra, Kadyrov, fedele a Putin, e Prigozhyn è un capitolo interessante di questa storia).

Falliti tali tentativi e inseguito dalle autorità, con la legge emanata da Putin che metteva la briglie alle compagnie di mercenari ponendole sotto il controllo della Difesa, Prigozhyn passa alle vie di fatto e il 23 giugno, nel pieno della controffensiva ucraina (iniziata il 4 giugno), dopo aver criticato direttamente Putin e l’invasione dell’Ucraina, tenta il putsch.

Lo stesso giorno, uno dei canali Telegram più seguiti dai russi – e non solo – annunciava che le truppe ucraine avevano sfondato nell’area chiave di Rabotino (lo ricordo perfettamente, non riesco a ritrovare la notizia…).

Notizia falsa, ma tutto si giocava su questo combinato disposto: se gli ucraini avessero sfondato un punto del fronte mentre la Russia era preda della destabilizzazione per la marcia su Mosca, la guerra sarebbe stata vinta. La Russia sarebbe collassata e Putin sarebbe stato estromesso.

In un altro articolo di Strana del 18 giugno, prima quindi della ribellione di Prigozhyn, un altro cenno di interesse: “Prigozhyn ha agito per molti aspetti come un alleato situazionale di Kiev”. Forse meno situazionale di quanto sembra…

Prigozhin, il cavallo perdente

Insomma, la controffensiva ucraina aveva un nome e cognome, Yevgeny Prigozhyn. ed è fallita con il fallimento della sua impresa. Per questo l’insufficienza degli armamenti inviati a Kiev era un fattore secondario: la controffensiva avrebbe avuto successo non con un attacco devastante, ma grazie a un regime-change in Russia e a uno sfondamento mirato del fronte, che la ribellione doveva facilitare.

Ma tutto ciò appartiene all’indicibile. Le autorità russe dovrebbero ammettere che sapevano tutto, come denota peraltro il massacro al quale hanno portato la Wagner a Bakhmut, servito probabilmente a spuntare le ali all’ex cuoco di Putin. Ma hanno lasciato fare perché sicuri di tenere la criticità sotto controllo (come si è dimostrato quando l’hanno risolta senza sparare un colpo). Dovrebbero ammettere, però un errore madornale, dato che Prighozyn era riuscito a divincolarsi e a porre, anche per un solo giorno, un rischio esistenziale per la Russia.

Né tantomeno si potrà mai dire in Occidente, perché la sua leadership dovrebbe ammettere di aver tramato un regime-change in Russia, minaccia diretta sulla quale avevano dato rassicurazioni a Mosca per evitare ritorsioni catastrofiche; né tantomeno potrà mai ammettere di aver puntato tutto su un uomo che essi classificavano tra i peggiori assassini della terra (per il quale, però, per un giorno hanno tifato tutti i media mainstream…).

Quanto a Prigozhyn non potrà più dir nulla, essendo ormai defunto, almeno ufficialmente.

Così più che di un’offensiva mirata, quanto si è consumato in quel fatidico giugno ha più l’aspetto di una partita di scacchi, nella quale gli strateghi Nato hanno puntato tutto su una combinazione nella quale la chiave di volta era una mossa di cavallo. Ma hanno dimenticato che i russi sono maestri di scacchi. E hanno perso.