25 Gennaio 2024

Usa, il ritiro da Siria e Iraq: ambiguità e speranze

Secondo Foreign Policy, nell'amministrazione Biden si discute di un possibile ritiro da Iraq e Siria. Gli attacchi ai porti israeliani
Gli Usa e il ritiro da Siria e Iraq: ambiguità e speranze
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All’interno dell’amministrazione Biden si sta discutendo di un possibile ritiro delle truppe Usa da Siria e Iraq. Lo riferisce Foreign Policy, che scrive: “Quattro informatori del dipartimento della Difesa e del dipartimento di Stato hanno affermato che la Casa Bianca vuole disimpegnarsi da una missione che percepisce come non necessaria. Sono attualmente in corso vivaci discussioni interne  per determinare come e quando potrà avvenire il ritiro”.

I neocon impazziti di rabbia

A rilanciare la notizia è Daniel McAdams sul sito del Ron Paul Institute, che aggiunge come solo l’idea di un ritiro delle forze di “occupazione” americane dai due Paesi mediorientali stia facendo “impazzire” i neoconservatori repubblicani e democratici. Neocon Freak-Out as Biden Contemplates Iraq/Syria Withdrawal

Il ritiro sarebbe “catastrofico” secondo essi, perché lascerebbe campo libero all’Isis e sarebbe celebrato come una vittoria dall’Iran. McAdams ironizza sul ritorno dello spauracchio dell’Isis, scomparso dai radar negli ultimi anni, ma brandito come una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti allo scopo di continuare l’occupazione. Quanto all’Iran, l’ironia di McAdams raddoppia: “Quei vili mullah! Come osano celebrare l’assenza di truppe ostili al loro confine?”.

Al di là dell’ironia, la notizia è davvero interessante, perché sarebbe un segnale molto forte per la destra israeliana che si riconosce in Netanyahu e i neocon di cui sopra: sfumerebbe l’opzione di una guerra contro l’Iran, più vicina che mai e agognata da decenni da tali ambiti. Il disimpegno, infatti, sarebbe un tacito veto a tale prospettiva e un gesto distensivo nei confronti dell’Iran, obiettivo reale delle forze americane stanziate in Medio Oriente.

L’Iraq ha chiesto il ritiro delle forze Usa fin dal 2020…

L’opzione di un ritiro non nasce ora: le pressioni perché gli americani riportino a casa le loro forze di occupazione sono via aumentate negli anni e oggi sono più forti che mai. Infatti, le basi Usa in Iraq sono bersagliate quasi ogni giorno dalle milizie sciite del ramo iracheno di Hezbollah, che stanno accompagnando la guerra intrapresa dai vari attori mediorientali legati a Teheran contro l’invasione israeliana di Gaza e i suoi supporter Usa (e alleati vari).

La posizione americana in Iraq è complicata dal fatto che già nel 2020 il Parlamento iracheno aveva votato all’unanimità una mozione che chiedeva il ritiro americano, impegnando in tal modo il governo, Tanto che il 6 gennaio scorso, partecipando al Forum di Davos, il primo ministro Mohamed Shia al-Sudani ha affermato chiaramente che “la fine della missione della coalizione internazionale è una necessità per la sicurezza e la stabilità dell’Iraq“. Iraqi leader again demands US-led coalition leave

Al-Sudani ha toccato anche il tema del’Isis, il cui spettro viene agitato per continuare la missione, spiegando che “attualmente, secondo i pareri espressi da tutti gli esperti di Iraq e dei nostri amici, l’Isis non rappresenta una minaccia per lo stato iracheno”. I militanti residui, infatti, operano come “gruppi isolati […] e vengono inseguiti ed eliminati dalle forze di sicurezza” irachene.

Il riflesso neo-coloniale dell’America

L’America finora ha fatto orecchie da mercante, perseverando nell’occupazione, con il Capo del Pentagono, Lloyd Austin, che ha più volte dichiarato che gli americani non si ritireranno. Affermazione che riecheggia il più oscuro colonialismo occidentale.

Ma le operazioni contro le basi americane delle milizie sciite pesano, anche perché le ritorsioni americane contro di esse suscitano l’irritazione del governo, dal momento che tali milizie sono parte integrante delle forze di Difesa nazionali. E, peraltro, a proposito di Isis, sono esse a conseguire i più importanti risultati contro i terroristi.

Quadro complesso, che peraltro sta pesando non poco sull’esercito americano, che, seppure deve subire attacchi simbolici. più che altro a mezzi e strutture, deve tenere alte le difese, cioè deve spendere molto più per la sicurezza,

Né Washington può scatenare una guerra contro le milizie sciite con leggerezza: le forze Usa sparse sul territorio iracheno rischiano di essere spazzate via prima che si dispieghi un’operazione americana in grande stile. E c’è il rischio che l’intero Paese si rivolti: sarebbe una nuova guerra irachena, difficile da giustificare.

La Siria e il suo petrolio

Quanto alla Siria, da tempo Assad chiede inutilmente il ritiro Usa, che hanno occupato il territorio sul quale insistono i giacimenti di petrolio siriani. Anche qui le basi Usa sono attaccate, anche se con meno frequenza, dalle milizie sciite. Da cui i problemi di cui sopra, anche se l’occupazione della Siria trova più giustificazioni, per quanto del tutto infondate.

Infatti, mentre l’Iraq è stato liberato (?) dagli Usa, da cui un rapporto formalmente amichevole col nuovo corso politico, con Assad persiste un’ostilità feroce, alimentata da una propaganda del tutto infondata sui suoi asseriti crimini (ce ne siamo occupati a distesa).

Di oggi la notizia rilanciata da Iraqinews:  “Alcuni fonti hanno hanno rivelato alla Reuters mercoledì che l’Iraq e gli Stati Uniti avvieranno i negoziati per porre fine alla missione della coalizione guidata dagli Stati Uniti che combatte l’Isis in Iraq”. Lo scetticismo è di rigore, ma occorre lasciare aperto qualche spiraglio alla speranza. Iraq, US to begin negotiations to end US-led coalition existence in Iraq

I porti israeliani nel mirino

In calce a questa nota, registriamo un cambio di paradigma nel confronto tra le milizie sciite e Israele – che si dispiega dal Libano al Mar Rosso fino a Iraq e Siria – volto a far pressioni su Tel Aviv perché cessi la guerra di Gaza.

Negli ultimi giorni, le milizie irachene di al-Hachd al-Shaabi hanno annunciato che avrebbero iniziato a colpire i porti israeliani per disabilitarli. Dopo aver attaccato il porto di Haifa alcuni giorni fa, negli ultimi  giorni il duplice attacco al porto di Ashdod, in parallelo con quello messo a segno dagli gli Houti contro il porto di Eliat. Attacchi al momento simbolici, volti a far pressione più che distruggere, ma che hanno certa efficacia di prospettiva. Segnale forte, Israele rischia l’isolamento.

Come abbiamo scritto in altre note, in parallelo al conflitto vero e proprio – feroce a Gaza, a bassa-media intensità altrove – il Medio Oriente vede dipanarsi una sorta di partita a scacchi, nella quale, peraltro, è difficile rovesciare il tavolo senza subire danni devastanti. Vedremo.