Gaza. Le trattative di Parigi: spiragli e ostacoli
Alti funzionari del Qatar, dell’Egitto, di Israele e degli Stati Uniti, rappresentati questi ultimi dal pragmatico capo della Cia William Burns, riuniti a Parigi, hanno assemblato uno schema di accordo per arrivare a una tregua a Gaza in cambio della liberazione degli ostaggi. Lo schema ora è al vaglio di Hamas e sui media circola un tenue ottimismo, anche se non per l’immediato.
La tregua a Gaza
Il nodo gordiano resta la natura della tregua. Per Hamas è condizione ineludibile che sia duratura, mentre la politica israeliana resta divisa tra gli irriducibili della guerra a oltranza, disposti a concedere solo una pausa temporanea, e quanti sono aperti a un cessate il fuoco duraturo pur di riportare indietro gli ostaggi.
A questi ultimi ha dato voce l’ex Capo di Stato Maggiore Gadi Eisenkot, al quale si è accodato Benny Gantz, anch’esso ex Capo di Stato Maggiore, entrambi leader dei due partiti di centro che hanno aderito al governo di unità nazionale creato da Netanyahu all’inizio della guerra ed entrambi membri del Gabinetto di guerra. Contraria all’accordo duraturo l’ultradestra di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che hanno minacciato di uscire dalla coalizione di governo se Netanyahu cederà.
Minaccia alla quale ha risposto Yair Lapid, attualmente all’opposizione, che ha dichiarato la disponibilità del suo partito (Yesh Atid) a supportare il governo nel caso in cui l’ultradestra si sfilasse a causa dell’intesa. Questo, in estrema sintesi, il domino della politica israeliana, dal quale dipende la riuscita o meno del tentativo di Parigi.
L’intesa segreta e il nodo Netanyahu
Lo schema di intesa è segreto, ma evidentemente prevede in qualche modo e sotto qualche forma, magari di prospettiva, una tregua duratura. Lo si deduce dal fatto che la leadership di Hamas ha detto che lo “esaminerà“, altrimenti l’avrebbe rigettato subito. E lo dice l’agitarsi nervoso della politica israeliana.
Netanyahu, dal canto suo, appare irremovibile nella sua decisione di proseguire la guerra all’infinito, almeno fino alle presidenziali Usa, ma il suo cinismo e il suo pragmatismo lo rendono aperto a tutte le possibilità.
A complicare le cose, il fatto che egli immagina ancora di poter intronizzare a Washington la sua beniamina Nikki Halley, che nonostante le sconfitte nei vari round delle primarie non si è ancora ritirata, nella speranza non tanto di vincere, cosa che appare impossibile, quanto che Trump venga eliminato, per via giudiziaria o altro. così da rimanere l’unica candidata dei repubblicani.
Altre complicazioni all’intesa con Hamas vengono dagli “imprevisti” del conflitto, che Netanyahu sta cercando di allargare in ogni modo. Infatti, una guerra su larga scala, con Hezbollah o l’Iran, gli assicurerebbe di restare indisturbato sul trono e gli aprirebbe nuovi spazi di manovra per sopravvivere alla fine della guerra, cosa che oggi non appare possibile perché sarà chiamato a rispondere alle accuse di corruzione e a quelle sulla débacle del 7 ottobre.
Eliminare Hamas?
L’obiezione a un cessate il fuoco duraturo che sembra insuperabile è che Hamas ne uscirebbe ammaccato, ma vivo, pronto cioè a infliggere nuovi attacchi a Israele. Sul punto, un articolo di Muhammad Shehada su Haaretz, il quale spiega che ciò “si basa sulla falsa affermazione che Israele sia incapace di difendere i suoi confini e di imparare qualcosa dal 7 ottobre, che è stato prodotto dall’intelligence più disastrosa e dal fallimento politico [peggiore] della storia di Israele”.
Riprendendo quanto scritto da un altro cronista israeliano, secondo Shehada quanto avvenuto è conseguenza più “della stupidità, dell’arroganza e della negligenza dell’esercito e del governo di Israele, che della sofisticata” macchina da guerra di Hamas.
Inoltre, “la sorpresa, probabilmente l’elemento che ha più determinato il successo dell’attacco, è ormai persa per sempre. Israele con più soldati e aerei lungo i suoi confini e un governo, un esercito e una comunità di intelligence che hanno ormai smaltito la sbornia possono evitare con facilità” che quanto accaduto si ripeta.
Date tali premesse, Shehada annota che “secondo il Wall Street Journal l’80% dei tunnel di Hamas sono ancora intatti e, nella migliore delle ipotesi, solo il 20% dei suoi militanti è stato ucciso. Israele non può sconfiggere Hamas militarmente è la conclusione a cui stanno lentamente arrivando molti esperti israeliani”. Così questo obiettivo dichiarato all’inizio della guerra resta sfuggente, mentre si può e si deve raggiungere l’altro obiettivo dichiarato, liberare gli ostaggi. Serve un accordo con Hamas.
La pausa umanitaria protrarrà solo la mattanza
Resta, però, che “Hamas rifiuta un’altra ‘pausa umanitaria’ [temporanea] in cambio della liberazione degli ostaggi perché l’ultima ‘pausa’ di novembre ha prodotto più danni che benefici. Sebbene abbia riportato a casa 105 ostaggi [israeliani] e 240 detenuti palestinesi, la maggior parte dei quali donne e bambini, non ha migliorato in alcun modo la vita degli abitanti di Gaza e ha impedito alle masse sfollate di tornare alle loro case nel Nord. Hamas ora crede che non ci sia più niente da perdere a Gaza, dal momento che Israele ha distrutto praticamente tutto quel che si trovava in superficie, quindi reputa di poter aspettare”.
“Un cessate il fuoco permanente, una ‘hudna’, come viene chiamata in arabo, cosa che non è mai stata siglata tra Israele e Hamas, è l’unico modo per liberare gli ostaggi e ripristinare la stabilità”.
“Se la guerra dovesse finire oggi, la posizione di Hamas sarebbe quella di non cercare un’altra grande escalation per i prossimi dieci o vent’anni, tempo durante il quale Gaza verrà ricostruita, secondo fonti vicine ad Hamas. Ciò lascia spazio per risolvere il conflitto, soprattutto perché lo slancio e la pressione internazionale sul tema sono arrivate a un livello del tutto nuovo dopo il 7 ottobre e la guerra”.
L’attacco alla base Usa: la risposta sarà limitata
Shehada continua prospettando vari scenari per la Gaza post-guerra, ma tralasciamo, rimandando al suo scritto chi voglia approfondire, perché ad oggi tutto sta o cade sulla tregua prolungata. Vedremo. Intanto, i morti a Gaza salgono a 26.751 e i feriti a 65.636. Più che una guerra, una mattanza.
Nel complicato rebus mediorientale resta da inserire la variabile posta dalla risposta americana prossima ventura alle vittime dell’attacco contro la sua base militare in Giordania. Il Pentagono ha dichiarato che non ci sono prove di un coinvolgimento dell’Iran, confermando così le dichiarazioni di Teheran; e il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha affermato: “Non stiamo cercando una guerra con l’Iran”.
Dunque, nonostante le fortissime pressioni per bombardare l’Iran, la risposta degli Stati Uniti sarà altrove e limitata. Lo dice anche il ritardo della ritorsione, indizio di trattative segrete in corso con la controparte. L’escalation, per ora, sembra evitata. Avrebbe fatto saltare anche le trattative in corso su Gaza.