La Turchia in bilico tra guerra e mediazione
Tempo di lettura: 3 minutiÈ sulle rive del Bosforo, ancora una volta, che potrebbe giocarsi una buona parte delle sorti della guerra civile siriana e di tutto il Medio Oriente. Giusto una settimana fa il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha sorpreso gli osservatori internazionali rilanciando un’idea accantonata da tempo: quella di un avvicinamento della Turchia al gruppo dei “cinque di Shanghai”, l’organizzazione per la cooperazione in Asia centrale nata dall’iniziativa di Russia e Cina (insieme a Kazakistan, Tajikistan e Kirghizistan). Perché questo “colpo di testa” del premier turco? In molti si sono risposti: stufi di aspettare l’Europa, ecco che i turchi si voltano a Oriente. Dimenticati dall’Unione europea, si consegnano nelle braccia di Mosca e Pechino.
A inserire l’annuncio di Erdogan in una prospettiva più ampia ci ha pensato, tra gli altri, una bella analisi del Financial Times. Ankara non ha voltato le spalle all’Occidente, ma sta tornando a svolgere un ruolo che aveva abbandonato ormai da diversi mesi: quello del mediatore tra Est e Ovest. «Il premier Erdogan – scrive Daniel Dombey, corrispondente da Istanbul del quotidiano londinese – ha smussato la retorica sul conflitto siriano, enfatizzando la necessità di lavorare insieme alla Russia», ma allo stesso tempo «ha ricominciato a parlare di ingresso della Turchia in Europa», lanciando un tour delle capitali europee e invitando ad Ankara François Hollande e Angela Merkel. E proprio il viaggio del presidente francese potrebbe essere l’occasione per rilanciare il processo di adesione della Turchia all’Europa.
Voltare le spalle all’Occidente? Sarebbe davvero difficile: «La Turchia non è mai stata così dipendente dalla Nato», scriveva lunedì scorso Andrew Finkel sul New York Times. E la ragione di questa nuova «dipendenza» sta tutta nel conflitto siriano. Negli scorsi mesi Erdogan ha preferito la strada dello scontro a quella della mediazione: ha insistito perché l’Alleanza atlantica installasse i suoi missili Patriot nel sud dell’Anatolia, per prepararsi alla guerra totale contro il regime di Bashar al Assad, abbandonando allo stesso tempo i canali diplomatici che – passando per Mosca – portano a Damasco.
Ma qualcosa pare muoversi. Proprio oggi un portavoce del ministero degli Esteri turco ha chiarito che la richiesta di adesione al gruppo di Shanghai fa parte di una strategia di «diplomazia multipolare». Il dialogo con la Russia non esclude quello con l’Occidente. E sul fronte siriano vanno favoriti tutti i tentativi di incontro tra le componenti del governo e dell’opposizione disponibili al compromesso.
Senza “distensione” tra Erdogan, la Russia e la Cina, questo sforzo «multipolare» sarebbe impossibile. Lo ha ricordato anche Kemal Kilicdaroglu, capo del principale partito di opposizione in Turchia (il Partito repubblicano, Chp), durante il suo recente viaggio a Pechino: il leader kemalista ha detto di vedere di buon occhio l’avvicinamento al gruppo di Shanghai, anche in vista di una nuova conferenza internazionale sulla Siria che porti allo stesso tavolo governo e ribelli, Stati Uniti, Russia, Cina e Iran. È la prima volta in parecchi mesi che il centrosinistra di Kilicdaroglu e il centrodestra del premier sembrano parlare la stessa lingua.
Difficile dire se il cambiamento di rotta di Erdogan sia destinato a resistere, o se prevarrà ancora la linea dello scontro. Basta poco per cancellare il lavoro di settimane. L’attentato di oggi contro l’ambasciata americana di Ankara – condotto, pare, da un militante di un gruppo dell’estrema sinistra noto per le sue posizioni anti-americane e anti-atlantiste – complica tutto. Non sarà facile per la Turchia ritrovare un equilibrio tra Est e Ovest, tra ricerca della mediazione e istinti guerrafondai. Ma nel triangolo Washington-Ankara-Mosca si gioca un pezzo importante della brutta vicenda siriana.