Navalny, il martire del maccartismo
Nello stesso giorno in cui è giunta la notizia della morte di Alexei Navalny l’Ucraina ha annunciato il ritiro da Adviika. La cattura della città da parte dei russi sarebbe suonata come campana a morto per la guerra ucraina, la morte di Navalny non solo ha coperto la notizia, ma rilancia la campagna maccartista contro la Russia.
Conquista più che simbolica quella di Adviika, perché qui si era recato Zelensky a fine dicembre per rilanciare la sfida a Mosca, dichiarando con fierezza che Kiev non si sarebbe mai arresa. Già allora era chiaro che la città era persa, ma il presidente ucraino ha voluto difenderla a tutti i costi (come per Bakhmut), mandando al macello i suoi soldati, caduti come mosche sotto il fuoco nemico per un altro mese e mezzo, per arrivare, infine, a ripiegare come aveva suggerito da tempo il capo delle forze armate, generale Valery Zaluznhy, nel frattempo silurato.
Tale la dinamica della guerra alla Russia fino all’ultimo ucraino. La morte di Navalny, dunque, ha coperto tutto, anzi rilanciato. Infatti, Zelensky non ha mancato di far sentire la sua voce contro il “dittatore” russo: “Navalny è morto in una prigione russa. Ovviamente è stato ucciso da Putin”.
Navalny e Gonzalo Lira. Morti di serie A e di serie B
Peccato che solo un mese fa, il 12 gennaio, nelle carceri ucraine moriva di stenti il giornalista americano Gonzalo Lira, arrestato per aver firmato servizi nei quali denunciava le devianze del regime di Kiev. Una morte annunciata, che ha avuto la connivenza degli Stati Uniti (Victoria Nuland “lo odiava a morte“, confidò).
Nel briefing del 6 giugno scorso, il portavoce del Dipartimento di Stato Vedant Pattel. Interpellato sul perché il suo ufficio tacesse sull’arresto di Lira, rispondeva che il Dipartimento di Stato, quando un cittadino americano viene arrestato all’estero, si assicura che sia trattato bene e di “non avere altro da aggiungere”. Alle insistenze del suo interlocutore, rispondeva secco: “Andiamo avanti”. Alcuni mesi dopo, la morte di Lira. Insomma, prima di guardare la pagliuzza nell’occhio altrui…
Quanto a Navalny, la tempistica del decesso non poteva essere più favorevole a Kiev e ai suoi sostenitori. Non solo per Adviika, ma anche per quanto riguarda gli aiuti statunitensi all’Ucraina, bloccati alla Camera dai repubblicani. Così Biden: “‘Spero in Dio che ciò aiuti’ a spingere i legislatori statunitensi a inviare nuovi aiuti all’Ucraina”. Inoltre, ha chiuso la parentesi aperta dall’intervista di Tucker Carlson a Putin, con il cronista che, dopo aver realizzato “il servizio più visto della storia” (così Ron Paul), ieri si è dovuto scagliare contro Putin. Tutte cose che avevamo pronosticato nella nota di ieri: nessuna preveggenza, meccanismi banali.
Di interesse notare che ieri sera la moglie di Navalny è intervenuta alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, indetta per rivitalizzare la campagna di aiuti per Kiev. Tempistica perfetta.
Quando Navalny si candidò grazie a Putin…
Quanto a Navalny, è utile ribadire che da vivo non costituiva alcuna minaccia per Putin (InsideOver), da morto sì. Nonostante la sua popolarità in Occidente, le sue avventure politiche in Russia avevano raccolto percentuali da prefisso telefonico.
L’unico risultato apprezzabile, il solo ricordato in queste ore, è il 27% preso nelle elezioni municipali di Mosca. Nessuno ricorda, però, che nell’occasione si presentò grazie a Putin. Non aveva le firme necessarie a presentare la lista, così il candidato del partito di Putin, Sergei Sobyanin, “diede ordine ai deputati municipali del partito al potere di dare a Navalny le firme necessarie per partecipare alla corsa”. Lo scriveva il Guardian, non certo un media favorevole allo zar, anzi.
Sull’asserito avvelenamento di Navalny, ricordato un po’ da tutti, non torneremo (ne abbiamo scritto ampiamente all’epoca e ricordato ieri), mentre qualche parola va spesa per il suo arresto dopo di esso. Portato in Germania per cure, finita la convalescenza lanciò la sua ultima sfida: tornare in patria per riprendere la lotta.
Sul capo di Navalny pendevano varie accuse, cioè frode e appropriazione indebita, cioè le accuse che perseguitano oggi Trump, oppositore politico dell’establishment Usa (nel giorno della morte di Navalny, peraltro, il tycoon ha ricevuto l’ennesima condanna). Accuse che lo portarono alla sbarra appena sbarcato a Mosca, alle quali si aggiunse quella di aver violato la restrizione domiciliare, da cui il fermo che preludeva alle condanne successive.
La Maidan russa
Al di là della fondatezza o meno delle accuse, ad accennare la portata della sfida posta dal rimpatrio di Navalny è Strana. Riportiamo: “Molti lo associarono [il ritorno ndr] ai piani per promuovere una Maidan a Mosca. In contemporanea, infatti, uscì il film “Putin Palace”,[contro Putin, regista Navalny ndr] che nel primo giorno contò più di 20 milioni di visualizzazioni. Diverse proteste ebbero effettivamente luogo nella capitale e in altre città, ma furono piuttosto limitate nei numeri e si attenuarono rapidamente”.
Più che probabile, cioè, che Navalny avesse avuto rassicurazioni dai suoi sostenitori d’Occidente di una possibilità reale che avesse luogo una rivoluzione in stile Maidan, alla quale, però, i russi erano preparati, non potendo permettersi il ripetersi, in patria, di quanto avvenuto nella vicina Ucraina.
Insomma, fu mandato allo sbaraglio. Se la Maidan russa fosse riuscita avrebbero vinto la partita, se fosse fallita avrebbero avuto un martire da poter brandire contro Putin. Così Navalny, pur fallendo nella missione principale, ha servito la causa con il martirio, anche se allora fu limitato al solo carcere. Dinamica istruttiva per quanto riguarda il presente.
Navalny e il nazionalismo russo
Quanto alla sua figura, tanti hanno notato il suo passato da nazionalista estremo, tanto che in un video dichiarò che fosse necessario sterminare “mosche aggressive e scarafaggi giganti”, riferendosi ai musulmani. Posizione che gli valse la condanna di Amnesty international, revocata poi su pressioni insostenibili.
Nel tratteggiarne il ritratto, il Washington Post di ieri faceva notare che, prima della guerra ucraina, Navalny aveva “sposato l’idea che russi, ucraini e bielorussi sono un unico popolo e che la Crimea, annessa da Putin, era parte integrante della Russia data ingiustamente all’Ucraina da un leader sovietico”, cioè Stalin. Idee che riecheggiano quanto dichiarato da Putin nell’intervista a Carlson.
Sulla restituzione della Crimea all’Ucraina, peraltro, era stato brutale. Così in un’intervista: “Credo che, nonostante il fatto che la Crimea sia stata conquistata in palese violazione di tutte le norme internazionali, la realtà è che ora la Crimea fa parte della Federazione Russa […] consiglio vivamente anche agli ucraini di non illudersi. Rimarrà parte della Russia e non diventerà mai parte dell’Ucraina nel prossimo futuro […]. La Crimea è un panino alla salsiccia, o qualcosa del genere, da far passare avanti e indietro? Non credo”. Posizioni, ovviamente cambiate con l’invasione russa, più allineate alle narrative occidentali.
Al di là del pregresso, di fronte alla morte resta l’umana pietà. E le tante domande: non sappiamo se il decesso sia naturale o meno; certo è che, se è stato ucciso, è stata opera di mani e menti sopraffine.