Il sogno utopico della "vittoria totale" su Hamas
Il presidente Biden, intervenendo in uno show americano, ha reiterato la sua richiesta di porre fine, in un modo o nell’altro, alle operazioni militari di Gaza e di far sì che anche i palestinesi in futuro possano godere della necessaria sicurezza. Per rafforzare il concetto ha affermato che solo in questa prospettiva Israele “potrà sopravvivere” a questa guerra.
Israele e la ricerca disperata della “vittoria totale” su Hamas
Infatti, è sotto gli occhi di tutti che la mattanza di Gaza e la dura repressione in Cisgiordania non solo stanno infliggendo enormi sofferenze ai palestinesi, ma stanno devastando anche l’immagine di Israele a livello globale, che rischia di diventare la “Corea del Nord del Medio Oriente”, come da titolo di un articolo di Uri Misgav su Haaretz il 22 febbraio.
Un punto sul quale ha scritto in maniera più dettagliata B. Michael, in un articolo pubblicato su Haaretz il 28 febbraio, nel quale spiega che la leadership israeliana ha commesso un grave errore strategico quando ha annunciato che l’obiettivo della guerra era quello di conseguire una “vittoria totale” su Hamas. Qualcosa di paragonabile al leggendario Santo Graal di Re Artù, scrive il cronista, che, come questo, avrebbe dovuto assicurare forza e potere a tale leadership.
Un obiettivo che inizialmente sembrava alla portata, ma che è sfumato l’8 ottobre, quando Israele, ha annunciato pubblicamente la sua “guerra totale” ad Hamas, senza aver prima fatto una vera pianificazione né aver studiato una strategia di uscita. Ne è nato un intervento dettato solo “dalla rabbia e dall’ego ferito”.
Le dimensioni della guerra totale di cui sopra sono state chiare il 9 ottobre, quando il ministro della Difesa Yoav Gallant ha annunciato il “blocco totale” di Gaza, privando la popolazione di acqua, cibo, elettricità e medicine. In quel momento il miraggio della ‘vittoria totale‘” di Israele è svanito per sempre, come sottolinea Michael.
Il marchio di Caino
Se Israele avesse adottato una strategia più lucida dopo il massacro del 7 ottobre, osserva il cronista di Haaretz, avrebbe goduto del sostegno del mondo (o almeno di una parte, si può specificare). Scrive, infatti: “Se avessimo agito con giustizia, Israele sarebbe tornato a rivestire i panni che predilige: quelli della vittima, del perseguitato, del sofferente”.
Invece, il paese è stato guidato “dall’istinto”, continua: “Si trattava di rafforzare il proprio ego [ferito], distrarre tutti dal disastro del 7 ottobre [cioè l’assenza di vigilanza dell’esercito ndr], e irretire le masse promettendo loro una una implacabile vendetta. Tutto ciò non porta alla ‘vittoria totale’, ma al marchio di Caino”.
“E mentre il numero di vittime e di case distrutte aumenta di giorno in giorno, il marchio di Caino sulla fronte di Israele diventa sempre più grande. Quando il numero delle vittime ha toccato le decine di migliaia, di cui più della metà donne e bambini, Israele si è consegnato al club dei paesi emarginati, marchiati e isolati, fatti segno di riprovazione globale”.
Ciò rende impossibile non solo una “vittoria totale”, ma “qualsiasi tipo di vittoria” che possa derivare da tutto questo “male”, conclude Michael. “E il culmine dell’assurdo è che lo ‘Stato ebraico’, che per anni ha denunciato il crudele silenzio del mondo mentre si consumava l’Olocausto, ora pretende che il mondo resti in silenzio e non interferisca“.
Le trattative per il rilascio degli ostaggi e la confusione di Netanyahu
Non si tratta di stabilire un parallelo con l’Olocausto, poiché Israele non ha istituito camere a gas a Gaza. E però, la restrizione e la privazione di quanto è essenziale alla vita, ricorda quanto avvenne agli armeni, il cui popolo fu ridotto allo stremo fino alla morte di stenti. Non ci sostituiamo ai giudici dell’Aia, ma il richiamo storico resta evocativo.
Per quanto riguarda le trattative in corso per la cessazione delle ostilità, parziale o totale che sia, in cambio degli ostaggi israeliani, il presidente Biden si è detto ottimista, ma Israele e Hamas, cioè i protagonisti dell’eventuale accordo, non tanto.
Se questa prematura e avventata esternazione di ottimismo non è l’ennesima manifestazione di senilità del presidente americano, può spiegarsi come un modo per esercitare pressioni sul recalcitrante Netanyahu, che deve stare attento, nel muoversi, a non smentire in maniera troppo drastica l’alleato indispensabile del suo Paese.
Il problema è che Biden è debole, al contrario del suo interlocutore mediorientale, che ha fatto della Forza il suo brand vincente. Ma questa immagine è messa in dubbio da un media inaspettato, il Jerusalem Post, che ha pubblicato un’analisi basata su due fotografie del premier, una precedente la guerra e l’altra attuale.
L’analisi è spietata: il premier, si legge sul JP, “è profondamente confuso, sia emotivamente che mentalmente”. Se ciò fosse vero, sarebbe ancora più preoccupante e rischioso.
È vero che stiamo parlando di un’analisi basata su due fotografie, qualcosa che può apparire effimero. Ma a dare peso alla cosa è, appunto, il fatto che è apparsa sul Jerusalem Post, cioè il media di riferimento dell’establishment israeliano. Media ed establishment che hanno sostenuto a spada tratta (è il caso di dirlo) il premier in questi mesi di guerra. Un piccolo, forte, segnale di insofferenza.