15 Aprile 2024

L'attacco iraniano e la guerra di Gaza. Binomio inscindibile

Teheran aveva comunicato a Washington che non avrebbe riposto in cambio di una tregua duratura a Gaza. Israele per ora ha rinunciato a rispondere, soprattutto per la ferma opposizione degli Usa.
L'attacco iraniano e la guerra di Gaza. Binomio inscindibile
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I fuochi d’artificio di sabato notte non sono l’ennesimo drammatico capitolo dell’annoso conflitto tra Iran e Israele, ma partecipano della tragedia che si sta consumando a Gaza. Infatti, è per sfuggire ai fallimenti di Gaza che Netanyahu sta tentando di allargare la guerra.

L’esercito israeliano è impantanato nella Striscia, impossibilitato a conseguire gli annunciati obiettivi massimalisti e sta logorando ogni giorno di più non solo il suo prestigio internazionale, ma anche il capitale morale derivante dall’Olocausto.

Allargare il fronte dello scontro trascinando con sé gli alleati non solo gli eviterebbe di fare i conti con tale rovescio, ma dilaverebbe la mattanza di Gaza, sia derubricandola a un passato senza importanza rispetto all’ecatombe successiva, sia coinvolgendo direttamente nella guerra, e quindi anche nel pregresso genocidio dei palestinesi, gli alleati (già correi).

Inoltre, serve a Netanyahu per evitare la prigione che l’aspetta se il conflitto finisce. Da qui l’attacco all’ambasciata iraniana in Siria, che aveva il potenziale di innescare una grande guerra.

L’offerta iraniana su Gaza

Ma la mattanza di Gaza ha un ulteriore peso nella svolta degli ultimi giorni. Infatti, dopo l’attacco all’ambasciata, Teheran aveva comunicato a Washington che non avrebbe riposto in cambio di una tregua duratura a Gaza.

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Messaggio recepito con soddisfazione dagli Usa, che non vogliono la guerra con Teheran, ma con furia a Tel Aviv, con Netanyahu che in un colpo solo avrebbe visto fallire la sua strategia, se così si può definire, su Gaza e, insieme, anche la prospettiva di una guerra con l’Iran.

Così l’offerta iraniana non ha avuto alcun esito, con Hamas che ha rigettato l’ennesima proposta irricevibile di una tregua limitata, avendo chiesto fin da principio che fosse duratura.

Dato ciò, per l’Iran si aprivano prospettive non allettanti. Avrebbe potuto attendere la prossima provocazione israeliana, che sarebbe di certo arrivata e su scala maggiore, dal momento che l’Occidente aveva accolto con la solita condiscendenza lo “squilibrato” raid di Damasco.

In alternativa, temeva che gli fosse attribuito un grande attentato all’estero contro un obiettivo ebraico. In tal senso deve esser risuonato come un campanello di allarme il fatto che la giustizia argentina, il 12 aprile, abbia accusato Teheran dell’attentato avvenuto nel 1984 a Buenos Aires (sulle cui responsabilità la magistratura argentina ha avuto fasi altalenanti; per mera coincidenza, l’attuale presidente è un fan del sionismo messianico dei lubavitcher).

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Così Teheran ha deciso di agire. Un attacco dimostrativo, nulla più, rivendicato come legittima autodifesa. I dettagli sono noti: il preavviso agli alleati e soprattutto agli Usa, quindi a Israele, in modo che tutto fosse pronto per l’intercettazione; lo sciame limitato di droni che avrebbero raggiunto Israele in più di due ore, così da dar modo alle difese di agire. Tutto preordinato, come accadde per la reazione contro gli Usa dopo l’assassinio del generale Soleimani.

Non per nulla, proprio in questi giorni, l’America aveva inviato un generale a Tel Aviv, probabilmente allo scopo di evitare che l’alleato si lanciasse in altre sciocchezze.

Allo stesso tempo, l’attacco aveva lo scopo di dimostrare le capacità belliche iraniane e la sua risoluzione ad usarle, avvertendo Israele e il mondo delle catastrofiche conseguenze di una guerra regionale. Obiettivo riuscito, a stare alle pressioni su Tel Aviv perché accolga l’invito di Teheran a finirla qui.

Reazioni

In Iran e altrove lo sfoggio muscolare è stato salutato come una grande vittoria, in particolare perché ha rivelato che Israele senza alleati è vulnerabile.

Ma Biden, e tanti altri, hanno fatto bene a lodare le difese israeliane, capaci di sventare la grave minaccia. Serve a evitare che l’ego ferito dell’esercito israeliano, già provato per il tragico default del 7 ottobre, lo induca a reazioni sconsiderate dettate dalla frustrazione.

La realtà, invero, è tutt’altra. Nonostante il supporto massivo dell’aviazione Usa, britannica e francese, e nonostante il numero limitato di vettori lanciati da Teheran, alcuni di essi hanno raggiunto Israele e, secondo fonti iraniane, avrebbero sorvolato la Knesset e la centrale atomica di Dimona – monito a Israele a non usare armi nucleari perché Teheran può fare altrettanti danni colpendo il reattore in questione.

Non solo, l’obiettivo militare primario dell’attacco sembra sia stato raggiunto. Infatti, missili ipersonici, vettori veri, hanno colpito la base dalla quale sono partiti i jet che hanno bombardato l’ambasciata di Damasco; lo asseriscono gli iraniani, con il Jerusalem post che conferma che una base è stata colpita, anche se minimizza. Se vero, come sembra, è di alto significato simbolico.

Nevatim airbase also struck during Iran missile attack Saturday night - report

Allo stesso tempo, Hezbollah è stata tenuta fuori dall’attacco – al contrario delle milizie sciite irachene e degli Houti – limitando il suo apporto al solito scambio di colpi sul confine libanese.

Avrebbe potuto infliggere danni gravi all’avversario, date le capacità e il fatto che questi fosse impegnato a contrastare l’attacco di Teheran. Un modo per tenere bassa la tensione su quel fronte e diversificare i destini degli alleati.

La guerra catastrofica

Non si tratta di elogiare le capacità iraniane, solo di guardare in faccia la realtà, nel tentativo di dileguare le nebbie dei costruttori di guerra che cercano di trascinare il mondo in un conflitto che propagandano come una sorta di passeggiata (al modo della famosa-fumosa controffensiva ucraina).

Al contrario, se è vero che l’Iran ne uscirebbe devastato, stessa sorte toccherebbe a Israele, mentre i suoi alleati dovranno piangere una moltitudine di cadaveri, anzitutto tra i militari americani sparsi nelle basi mediorientali.

Peraltro, l’altra mossa di Teheran, messa a segno poco prima dell’attacco e passata in secondo piano a causa di esso, cioè il sequestro di una nave israeliana nello Stretto di Hormuz – a detta degli iraniani legata all’intelligence – ha ricordato al mondo che l’Iran può chiudere lo Stretto, passaggio chiave del commercio globale…

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Israele per ora ha rinunciato a rispondere, soprattutto per la ferma posizione di Biden, che sarà stata supportata sicuramente da alti ufficiali dell’esercito israeliano, i quali sanno bene le conseguenze di un conflitto di tal fatta (un po’ come avvenne quando l’esercitò costrinse Moshe Dayan a ritirare l’ordine di proseguire la guerra con l’Egitto).

Allo stesso tempo, Israele ha dichiarato che si riserva di rispondere in futuro. Netanyahu, e non solo lui, spera di riuscire a tenere alta la tensione con l’Iran per stornare l’attenzione da Gaza, ma è prospettiva a rischio catastrofe e non facilmente spendibile, sia in patria che presso gli alleati.

In attesa, si spera in un ritorno alla ragionevolezza, sia in Israele che a livello globale. In tale contesto, il cessate il fuoco a Gaza, nodo cruciale del conflitto in atto, urge più che mai, come evidenzia un articolo odierno del New York Times.