Intelligence Usa: Putin non ha ordinato di uccidere Navalny
La comunità dell’intelligence degli Stati Uniti ha escluso che Putin abbia ordinato di uccidere Navalny, anche se la formula che usa il Wall Street Journal nel rivelare tale conclusione resta aleatoria, riferendo cioè che è “improbabile” un ordine di Putin in tal senso et similia, per evitare di disturbare eccessivamente la narrativa di guerra.
La morte di Navalny ha offuscato la vittoria elettorale di Putin
Nel tentativo di sminuire la notizia, il WSJ riporta anche voci dissonanti da tale valutazione, nonostante abbiano meno autorevolezza e meno informazioni dell’intelligence Usa. E il primo a essere interpellato a tale scopo è Leonid Volkov, che il giornale presenta come sodale di lungo corso di Navalny.
Sull’affidabilità di Volkov basta ricordare che, da presidente della Fondazione fondata da Navalny, inviò due missive riservate al ministro degli Esteri della Ue Josep Borrell per chiedere la remissione delle sanzioni per alcuni oligarchi russi.
Non è tanto questa mossa, forse favorita dai rapporti tra Volkov e gli oligarchi in questione, a suscitare dubbi sulla sua affidabilità, quanto il fatto che, quando l’iniziativa fu resa di pubblico dominio da un dissidente russo, il Volkov negò allo stremo di averla intrapresa, per poi infine ammetterla con scorno, tanto da dover abbandonare la carica di presidente della Fondazione.
A lustrare nuovamente l’immagine di Volkov, l’odiosa aggressione recentemente subita nel suo esilio in Lituania. Ovviamente le autorità lituane hanno subito accusato i russi, ai quali ormai si addebitano anche le liti condominiali, con accuse alquanto improbabili avendo i russi problemi maggiori da risolvere che non quelli (non) posti da un personaggio tanto screditato.
Forse l’aggressione potrebbe spiegarsi come un segnale indiretto contro la nuova presidente della Fondazione di Navalny, Maria Pevchikh, che per prima ha rivelato l’esistenza di una trattativa per liberare il dissidente russo. Rivelazione improvvida, dal momento che minava nel profondo la narrazione di un assassinio voluto da Putin, peraltro giunta proprio mentre montava la riprovazione del mondo contro lo zar.
Ma al di là dell’incidente di cronaca nera e delle sue motivazioni, val la pena riferire che l’articolo del WSJ si chiude riannodando i fili del fallito scambio di prigionieri.
“Solo una settimana prima della sua morte – scrive il media americano – Biden e il cancelliere tedesco Olaf Scholz avevano parlato di una potenziale proposta per uno scambio di prigionieri che avrebbe potuto liberare Navalny e gli americani detenuti in Russia”.
“Tra questi figuravano il giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich e l’ex marine americano Paul Whelan […] In cambio, il Cremlino voleva Vadim Krasikov, un agente dell’intelligence russa condannato in Germania per l’omicidio di un dissidente georgiano”. L’unica condizione posta da Putin era che Navalny non tornasse mai più in Russia, ricorda il media.
Il WSJ non riporta nel dettaglio le motivazioni della conclusione dell’intelligence Usa che scagionano Putin. Fa un solo cenno, ma più che significativo riguardo la tempistica, cioè che la morte dell’oppositore russo ha “oscurato” la vittoria elettorale di Putin appena conseguita.
Il giornale non fa il passo logico successivo, cioè che la liberazione di Navalny avrebbe segnato un altro punto a favore dell’immagine dello zar dopo quello conseguito nelle elezioni.
Una vittoria di immagine che peraltro avrebbe allentato le tensioni con l’Occidente, aprendo forse spiragli per le prospettive di un negoziato di pace, in contrasto con i desiderata del partito della guerra americano, che tali aperture ha affossato più volte con successo.
Le pressioni Usa sull’Ucraina per approvare la leva di massa
Morto Navalny, infatti, la narrazione sulle vicende ucraino-russe è rimasta sui binari consolidati e la guerra ha continuato il suo corso, macinando vite ucraine a maggior gloria del partito della guerra Usa, che ha ottenuto il suo trionfo con l’ultima tranche di aiuti per Kiev (rimandiamo all’intelligente commento dell’ex senatore Usa Ron Paul).
I nuovi aiuti non serviranno a ribaltare le sorti della guerra, come ben sanno tutti quelli che hanno spinto in tal senso, nonostante dicano il contrario. Né a permettere a Kiev di portare una prossima controffensiva, tanto che l’Economist ha rivelato che questa sarà possibile solo nel 2026 o 2027 (date aleatorie per una controffensiva aleatoria… sempre che per allora l’Ucraina esista ancora, si potrebbe aggiungere).
Non importa, tanto a morire in questa guerra per procura della Nato contro la Russia sono gli ucraini. E ne moriranno sempre di più grazie alla nuova legge sull’allargamento massivo della leva, che porterà al fronte altra carne da cannone.
Una legge sulla quale la Rada ucraina ha a lungo tergiversato, ben sapendo cosa avrebbe comportato per i propri concittadini (e temendo proteste), ma che alla fine è stata approvata per le forti pressioni degli Stati Uniti, come ha rivelato il New York Times.
I funzionari american “hanno fatto pressioni sul governo di Kiev” affinché “risolvesse i problemi” sull’approvazione della “legge sulla mobilitazione”, scrive il Nyt.
Ultimo a esercitare tali pressioni, il sottosegretario di Stato americano per gli affari europei ed eurasiatici James O’Brien, sbarcato a Kiev nella settimana cruciale per l’approvazione della norma. “L’Ucraina deve assicurarsi di avere le persone necessarie per combattere”, ha detto O’Brien in una conferenza stampa.
“Non faremo niente sulla quale l’Ucraina non sia d’accordo” è il mantra che ha usato e abusato l’amministrazione Usa per rifiutare le aperture di Mosca sui negoziati. Mantra che stride con le pressioni su Kiev perché si conformi ai propri desiderata.
Peraltro, mentre gli Usa e la leadership ucraina mandano centinaia di migliaia di uomini verso l’inferno della prima linea, “è in costante aumento il numero di cittadini ucraini disposti a prendere in considerazione l’opzione di adire a concessioni territoriali in cambio della cessazione delle ostilità/pace”, come rivela l’esperto di affari militari ucraino Alexander Musienko (Strana).
Solo la punta dell’iceberg di un sentimento sempre più dilagante nella società ucraina che i media occidentali evitano di riportare, spesso anzi riferendo il contrario perché tale sentimento stride con la narrativa di guerra alla quale sono consegnati.