Il riconoscimento della Palestina e le sindromi di Netanyahu
Il riconoscimento dello Stato della Palestina da parte di Norvegia e Irlanda e quello prossimo della Spagna ha un alto valore politico e simbolico, e vuole infondere speranza ai palestinesi che stanno attraversando “uno dei momenti più bui” della loro storia, come ha detto il Taoiseach (premier) irlandese Simon Harris. Scomposta e minacciosa la reazione di Israele, ma in questo non c’è nulla di nuovo.
Come nulla di nuovo si registra nel diuturno massacro che si sta consumando a Gaza, dove i bombardamenti continuano e la fame è usata come un’arma, come da accuse della Procura internazionale per i crimini di guerra.
Non solo le restrizioni agli aiuti, i blocchi ai camion di alimenti imposti dagli attivisti israeliani sotto l’occhio indulgente delle forze di sicurezza, ma anche i giochi di prestigio americani, che hanno aperto un molo per portare aiuti dal quale però non arriva niente… mentre l’Onu, a sua volta, ha dovuto interrompere la distribuzione di alimenti a Rafah a causa delle operazioni militari israeliane (Antiwar).
La mattanza, insomma, continua. La brutalità con cui si dipana l’azione israeliana non si spiega solo con la furia vendicativa o una dimostrazione di forza volta a rimediare alle tragiche defaillance della sicurezza del 7 ottobre, oppure con le pulsioni messianiche tese a eradicare i palestinesi per dar vita alla Grande Israele. C’è un altro fattore da aggiungere a questi, pure presenti, ed è la frustrazione, una frustrazione derivante dalle impreviste incertezze della guerra, nonostante la schiacciante sproporzione delle forze.
La vietnamizzazione del conflitto di Gaza
Certo, Hamas non può vincere, ma il problema è che la vittoria sfugge anche agli israeliani, come avevano avvertito tanti, anche in Israele, in tempi non sospetti, avendo Netanyahu fissato un obiettivo più che massimalista, la completa eradicazione di Hamas,
Riportiamo da Politico: “Sebbene le comunicazioni e le capacità militari di Hamas siano state degradate, solo il 30-35% dei suoi combattenti – tra quelli che facevano parte di Hamas prima dell’attacco del 7 ottobre – sono stati uccisi e circa il 65% dei suoi tunnel sono ancora intatti, secondo l’intelligence americana”.
A tali informazioni ne va aggiunta un’altra: “I funzionari di Biden sono inoltre sempre più preoccupati per come Hamas sia riuscita a reclutare migliaia di persone negli ultimi mesi di guerra. Ciò ha permesso al gruppo di resistere a mesi di offensive israeliane, secondo una fonte che ha rapporti con l’intelligence americana”.
Le armi? Hamas sta fabbricando i suoi missili con le bombe israeliane inesplose, come riferiva il Timesofisrael. E il 15% delle bombe sganciate su Gaza sono tali. Insomma, nonostante il massacro, la vittoria per Tel Aviv latita.
Tanto che Amos Harel, su Haaretz, ha parlato di una “vietnamizzazione” del conflitto. “Hamas – ha aggiunto – non è stato sconfitto, ma si sta ricostituendo nelle aree da cui l’IDF [Israel defence force ndr] si sta ritirando. E in assenza di una qualsiasi alternativa di governo, l’organizzazione potrebbe rafforzarsi. La frustrazione aumenta allorquando vengono uccisi sempre più soldati in zone dove l’IDF è dovuto ritornare per la seconda o la terza volta, inutilmente e senza scopo, a parte le vuote promesse di Netanyahu di una vittoria totale”.
Alon Pinkas e le sindromi di Netanyahu
Già, la frustrazione è aggravata dal fatto che a condurre le danze, a tutto decidere, è l’uomo solo al comando, che sta consumando un massacro senza precedenti nella storia moderna e distruggendo il suo stesso Paese, e che nessuno, a quanto pare, riesce a fermare.
Di grande interesse, sul personaggio, un’analisi di Alon Pinkas su Haaretz, secondo il quale Netanyahu assomma quattro diverse sindromi. La prima è quella del re Sole, Luigi XIV, che identificava se stesso con lo Stato, sintetizzata dalla celebre frase “L’etat c’est moi”, da cui l’identificazione del destino di Israele con il suo personale. La seconda è la sindrome di Stoccolma, l’empatia che può sviluppare il prigioniero verso i suoi carcerieri, che lo rende succube ai suoi carcerieri ultra-ortodossi. Ma ancora più interessanti le altre due.
La terza patologia che affligge il premier israeliano è la sindrome di Masada: “Come nel 73 d.C., sta cercando di instillare negli israeliani la sensazione che siamo pochi giusti perseguitati, circondati da un mondo ostile e pieno di odio. Siamo stretti in un crudele assedio e affrontiamo la minaccia di essere annientati, senza nulla da perdere e con la profonda convinzione che questa sia una guerra esistenziale, e assolutamente definitiva. Niente di tutto ciò era vero nel 73 . Né è lontanamente vero nel 2024″. A Masada, racconta la storia, gli ebrei circondati finirono per suicidarsi in massa.
La quarta, la sindrome di Shabbetai Zvi, un ebreo turco, “mistico” e alquanto “ciarlatano”, scrive Pinkas, che riuscì a creare un culto che non solo aveva la pretesa di conoscere la data esatta della venuta del messia, ma anche il suo palesarsi al mondo, nella persona dello stesso Zvi. “Netanyahu – conclude Pinkas – è riuscito a creare un culto che di fatto crede che lui sia una sorta di messia, in opposizione al liberalismo”.
Tali patologie, che hanno in Netanyahu un terminale, ma anche un catalizzatore di correnti di pensiero e pulsioni religiose alquanto diffuse in Israele, concorrono a spiegare la brutale follia della campagna militare di Gaza.