Il senso di Putin per l'Asia
Putin si è recato in Corea del Nord, prima tappa di un tour asiatico che lo ha portato poi in Vietnam. Due visite che ha fatto precedere da un intervento a un forum russo nel quale ha dichiarato che la priorità per tutto il 21° secolo per la Russia è sviluppare l’Estremo oriente. Non si tratta, quindi, solo di chiedere altre munizioni a Pyongyang per la guerra ucraina, come semplicisticamente annotano i media nostrani.
La guerra ucraina è incidentale, lo zar, a quanto pare, pensa molto più in prospettiva, cosa che manca ai suoi antagonisti globali che fondano tutto sulla possibilità che le guerre infinite riescano a ribaltare la situazione internazionale, riconsegnando loro il dominio del mondo.
Putin d’Asia
Putin non va solo a chiedere, ma anche a dare, cioè a favorire lo sviluppo dei suoi partner e potenziali tali. Non perché sia particolarmente buono, sta semplicemente adottando, in salsa russa, la politica che ha reso grande l’Impero americano, che attirava a sé con la promessa di prosperità e sicurezza, quella carota, vera o finta che sia, che l’Occidente ha ormai deposto in favore del solo bastone.
Detto questo, Putin e Kim Jong-un hanno anche siglato un patto di mutua protezione, analogo a quello tra Usa e Corea del Sud (sarebbe meglio che gli antagonisti globali riponessero le pistole nella fondina, entrambi; tant’è).
Putin non visitava la Corea del Nord da 24 anni, da cui l’ulteriore rilevanza del viaggio, che sdogana definitivamente Pyongyang dai margini del mondo – tale la sorte dei Paesi “canaglia” secondo la dottrina neocon – per farne un partner tout court di uno degli azionisti di maggioranza dei Brics.
Nell’ultima tappa del suo viaggio nordcoreano, Putin, accompagnato da Kim, ha visitato la “Chiesa ortodossa della Trinità vivificante”, costruita venti anni fa da Kim Jong Il dopo un viaggio in Russia ed è l’unica chiesa ortodossa del Paese.
Una visita analoga a quella che Putin ha realizzato nel recente viaggio in Cina e che segnala come lo zar prenda sul serio la sua assimilazione a nuovo Costantino, rinverdendo un sostrato culturale proprio dell’epoca degli zar (Treccani).
In Vietnam, dov’è sbarcato oggi, Putin incontrerà tutti i vertici del Paese. Hanoi ha un’economia in forte espansione, uno sviluppo favorito dalla recente connotazione di nazione rifugio per tante aziende Usa costrette a lasciare la Cina a causa delle guerra commerciale a bassa-alta intensità avviata da Trump e proseguita da Biden.
Così tante imprese americane hanno spostato le loro sedi da Pechino ad Hanoi, con gli Usa pronti a riallacciare i rapporti con il Vietnam che sembravano compromessi per sempre dopo la guerra portata a quel povero Paese. Ma la speranza di Washington di farne un alleato anti-cinese non è andata in porto.
La visita di Xi Jinping dello scorso dicembre ne ha frenato lo slancio americanista e la visita di Putin ribadisce che il Vietnam resta libero e indipendente e cercherà di ottenere vantaggi da tutti i partenariati. Peraltro, l’eredità della guerra Usa, nonostante tutto, non può non pesare.
La visita di Putin è stata preceduta dalla partecipazione di una delegazione del Vietnam e del vicino Laos a un forum organizzato dai Brics per dialogare con i Paesi in via di sviluppo (Vietnam news). Non sappiamo se la visita porterà Hanoi a cercare l’adesione ai Brics, certo è che l’organismo sta suscitando interesse in Asia: dopo la richiesta, ancora non ufficiale, avanzata dalla Turchia, è arrivata la manifestazione di interesse di Thailandia e Malesia.
Davvero un rapido cambiamento per il continente del futuro, dal momento che ormai è destino manifesto che l’Asia diventerà sempre più centrale per l’economia e le sorti del mondo.
La non invasione di Taiwan e la dottrina Brzezinski
A favorire tale sviluppo è stato sicuramente il motore cinese, che ha stornato verso l’Asia le rotte commerciali globali, ma anche l’assenza di conflitti di grandi proporzioni nel continente. È dalla guerra del Vietnam che, guerre afghana e irachena a parte (made in Usa), che l’Asia non vede guerre su larga scala (salvo qualche fiammata).
Anche per questo la Cina sta tentando di gestire la crisi di Taiwan, che pure esiste, usando solo del soft power, nonostante l continui allarmi sull’asserita aggressione cinese (di interesse, sul punto una nota di Asia Times).
Sul punto appare interessante la rivelazione del Financial Times secondo la quale, in un incontro, avvenuto ad aprile, con Ursula von der Leyen, Xi Jinping avrebbe detto alla presidente della Commissione Ue che gli Stati Uniti “stavano cercando di ingannare la Cina inducendola a invadere Taiwan , ma che lui non aveva abboccato”.
Improbabile? Al di delle tante fonti citate dal FT, in realtà lo scenario descritto appare analogo a quello ucraino, con la creazione di un focolaio di criticità ad alto rischio alle porte della nazione, che ha indotto infine Mosca a tagliare il nodo gordiano con la spada.
Così per Taiwan, dove gli Stati Uniti stanno pompando armi a go go similmente a quanto fatto per Kiev, alimentando le pulsioni-aspirazioni separatiste e anti-cinesi, inaccettabili per Pechino.
Il rifiuto di Xi è in linea con quanto descritto in precedenza: una guerra a Taiwan avrebbe echi globali e porterebbe destabilizzazione nel giardino di casa del Dragone creando criticità con tanti Paesi, asiatici e non, che oggi indulgono a un rapporto fecondo o quantomeno pacifico con esso.
Per tornare a Putin, si segnala un’ironica eterogenesi dei fini. La dottrina Brzezinski, elaborata dal Consigliere per la sicurezza nazionale Usa più influente dopo Kissinger, prevedeva che, rescindendo l’Ucraina dalla Russia, quest’ultima sarebbe diventata una nazione asiatica, quindi ininfluente.
La bizzarria è che tale dottrina si è realizzata in parallelo alla crescita dell’Asia e al declino progressivo dell’Occidente. Peraltro, il compimento di tale dottrina, avvenuto nell’ultimo decennio – che da Maidan porta alla guerra ucraina – ha accelerato di molto il declino europeo (ci torneremo).