Libano: incursione limitata o isolamento di Hezbollah
“I funzionari israeliani insistono sul fatto che le loro operazioni di terra nel Libano meridionale saranno limitate nella portata e nella durata. Ma lo avevano già detto due volte in precedenza, sia nel 1982 che nel 2006. Queste invasioni del Libano, al confine settentrionale [di Israele] si sono trasformate in conflitti molto più ampi, mortali e prolungati. Potrebbe succedere di nuovo”. Così inizia una nota di Axios.
Le persistenti ambiguità Usa
Nel dettagliare lo sviluppo della situazione, Axios aggiunge che l’operazione dovrebbe servire a eliminare le capacità offensive di Hezbollah al confine con Israele, così che non costituisca più una minaccia oltrefrontiera. Inoltre, Tel Aviv avrebbe comunicato agli americani che, una volta raggiunto l’obiettivo, le sue forze si ritireranno.
Ovviamente non si ritireranno affatto in caso di successo, ma solo se l’offensiva diventerà insostenibile, esito che va messo in conto dai i precedenti, anche perché, se è vero che l’esercito israeliano si sente pronto, dal momento che si sta preparando a questo passo da “18 anni”, è pur vero che anche Hezbollah ha fatto altrettanto.
Anche i successi branditi da Israele in questi giorni, dall’operazione terroristica con i dispositivi di comunicazione assassini, all’eliminazione di diversi leader del movimento sciita fino all’assassinio del loro capo carismatico, non cambia l’equazione bellica: i dirigenti del movimento uccisi sono stati sostituiti e l’arsenale di Hezbollah non è stato toccato.
E, però, tali successi hanno inebriato la leadership politica e militare israeliana che si è intruppata con “arrogante” euforia nella crociata indetta da Netanyahu. Lo annota con preoccupazione anche l’editoriale di Haaretz, che spiega come il solo Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, si sia opposto a un’operazione che porterà solo ad “altre morti e a un’ulteriore devastazione”.
Quanto all’America, il suo placet all’invasione è nei fatti, avendo destinato a Israele altri 8.7 miliardi di dollari. Ciò accadeva 5 giorni fa, quando la spinta per avviare l’invasione era già fortissima e mentre le bombe di Tel Aviv facevano strame di civili a Beirut Sud.
Così gli appelli attuali della leadership statunitense a riporre le armi nella fondina appaiono banali flatus vocis nel caso del senescente presidente, mentre per altri funzionari della sua amministrazione un semplice esercizio di feroce ipocrisia.
Le variabili priorità israeliane
Tale ambiguità è dettagliata da Axios, che accenna a come gli Usa siano da un lato preoccupati per una guerra su larga scala, dall’altro però possibilisti sul fatto che la pressione militare apra le porte a una soluzione che consenta di raggiungere l’obiettivo che Washington ha perseguito in precedenza con la diplomazia, cioè il ritiro di Hezbollah dal confine.
È la stessa ambiguità che ha accompagnato il genocidio di Gaza e che reitera lo stesso tragico errore: anche per Gaza si diceva che la pressione militare avrebbe portato alla capitolazione di Hamas, facendogli accettare un accordo al ribasso che ottenesse la liberazione degli ostaggi. Non è andata così.
Quanto agli ostaggi rapiti da Hamas, in precedenza preoccupazione principale delle opposizioni israeliane, che accusavano il premier di averli abbandonati al loro destino, ora sono stati davvero abbandonati. Con l’apertura del fronte Nord la loro sorte non è più una priorità, anzi. Da qui anche il disinteresse per un accordo con Hamas per la loro liberazione.
Capitava la stessa cosa per gli sfollati di Israele, che la guerra a bassa intensità con Hezbollah aveva costretto a lasciare le loro case, 60mila secondo Tel Aviv, 100mila secondo il movimento sciita.
Di loro, infatti, non importava nulla al governo prima dell’apertura del fronte Nord, come lamentavano gli stessi pubblicamente (Haaretz). Ora il loro “ritorno” alle terre abbandonate è diventato una priorità, ma solo perché serve a giustificare la nuova guerra, non altro.
L’invasione del Libano
Resta da vedere come si svilupperà l’invasione. L’opzione attuale vede una guerra di attrito lungo il confine che permetta a Israele di avanzare con lentezza, ma inesorabilmente (almeno nei loro piani) per conquistare parte del territorio libanese senza correre eccessivi rischi.
L’altra opzione è che a una fase prudente segua una invasione massiva, ma potrebbe causare troppe vittime israeliane. Più sofisticato, e forse più realistico, lo scenario descritto da al Akhbar, secondo il quale le forze israeliane cercheranno di isolare Hezbollah, tagliando le vie di comunicazione tra il Sud e il resto del Libano e chiudendo il confine con la Siria, già coinvolta nello scontro con diuturni e illegali bombardamenti.
Lo scopo di tale manovra accerchiante è ovviamente quello di impedire alle milizie sciite di ricevere rifornimenti e aiuti di ogni genere, compreso il soccorso dei feriti (14 i paramedici già uccisi dalle bombe: si reiterano le dinamiche registrate a Gaza).
Inoltre, Israele cercherà di tagliare le unghie allo Yemen e di alimentare sempre più l’attrito con Teheran per allargare il fronte all’Iran, coinvolgendo gli americani. Il tutto nell’indifferenza del mondo arabo sunnita, che secondo il media sarebbe al fianco di Usa e Israele (accusa forse un po’ semplicistica).
Infine, secondo il media vicino a Hezbollah, Israele cercherà di evitare infliggere danni eccessivi al resto del Libano per aver modo di guadagnare influenza sulle varie forze politiche allo scopo di modellare il futuro del Paese (un’operazione di influenza che peraltro va avanti da decenni, in combinato disposto con gli Stati Uniti).
Poco si sa delle operazioni sul terreno, limitandosi Israele a ripetere con enfasi che l’invasione è iniziata con incursioni mirate, con Hezbollah che nega che vi siano stati scontri a terra, afferma di essere pronta alla guerra e trattiene, evidentemente, il suo devastante potenziale, come dimostra il numero limitato di vettori lanciati contro il territorio israeliano. Vedremo.