Egitto e Iran, l'aggressività israeliana ne cambia i rapporti
La visita del ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi in Egitto ha grande rilevanza geopolitica, perché da più di un decennio i rapporti tra i due Paesi erano quasi collassati. A sottolinearne l’importanza il fatto che Araqchi abbia incontrato non solo il suo omologo, Badr Abdelatty, come da prassi diplomatica, ma anche il presidente Abdel-Fattah al-Sisi.
Certo, a urgere per un incontro prima impensabile è la situazione del Medio oriente sul quale, oltre agli orrori di Gaza e al conflitto libanese, incombe lo spettro di una guerra regionale, a causa dell’imminente attacco di Tel Aviv all’Iran, criticità tutte oggetto della visita di Araqchi. Ma c’è dell’altro.
Infatti, in parallelo con la visita, Al Sisi ha rimosso il capo dell’intelligence, il generale Abbas Kamel, nominato consigliere della presidenza e sostituito dal suo vice, il maggiore generale Hassan Mahmoud Rashad.
Un cambio della guardia ufficialmente dovuto a motivi di salute, però, il vero motivo potrebbe essere nascosto tra le righe di quanto si legge su The Arab Weekley: “In precedenza, Rashad aveva ricoperto il ruolo di vice di Kamel e, secondo due fonti della sicurezza, aveva assunto la gestione di fascicoli importanti, tra cui il miglioramento delle relazioni tra Egitto e Iran“.
Kamel, l’israelo-americano
Un articolo del Jerusalem Post mette in dubbio i motivi di salute e, dopo aver ricordato il potere di Kamel in Egitto, secondo solo a quello di Al Sisi, spiega che la sua sostituzione potrebbe essere legata a un “possibile cambiamento nella strategia egiziana”.
A conferma di ciò, quanto si legge successivamente: “Si dice che i funzionari israeliani e americani siano profondamente turbati per la rimozione di Kamel; alcune fonti indicano che il cambiamento potrebbe mettere a dura prova non solo i negoziati per gli ostaggi [israeliani], ma anche le relazioni tra Egitto e Israele”. Il cronista del JP, che curiosamente ha lo stesso cognome del capo del Mossad David Barnea, sembra avere buone fonti, da cui l’interesse per l’articolo.
Va ricordato che Kamel avvertì l’Ufficio del primo ministro israeliano dell’imminente attacco di Hamas, addirittura 10 giorni prima del 7 ottobre. Ma Netanyahu non solo ignorò l’allarme, che pure giungeva da una fonte di così alto livello, ma permise che quasi tutte le forze israeliane fossero dislocate a ridosso della Cisgiordania, allora preda di forti tensioni, lasciando quasi indifeso il resto del Paese. Il resto è storia, con Hamas che penetrava come burro attraverso la frontiera israeliana, risultata nell’occasione meno controllata di quella di San Marino, e faceva sfracelli.
L’avvertimento di Kamel fu reso pubblico subito dopo l’attacco, ma la rivelazione fu semplicemente ignorata, come anche le tante successive che hanno confermato che Tel Aviv era a conoscenza dei piani di Hamas. Tant’è.
Al di là del pregresso, resta la visita storica del ministro degli Esteri iraniano in Egitto. Non sappiamo se davvero il Cairo si stia riposizionando, ma è certo che l’implacabile aggressività israeliana e il disegno che gli è sotteso, cioè rimodellare l’intero Medio oriente, ha scosso tutti i Paesi della regione, i quali stanno cercando un modo per porre un freno alla destabilizzazione dilagante.
L’uccisione di Sinwar
E chissà se anche la morte di Yahya Sinwar non sia da collocare nel quadro di una operazione volta alla de-escalation. Certo, è possibile che sia avvenuta casualmente come dicono, ma l’idea che il capo di Hamas si aggirasse tranquillamente per le rovine di Rafah, peraltro con soli due uomini di scorta e senza che vi fosse una rete di protezione all’intorno, fosse solo di vedette pronte a dare l’allarme all’appressarsi del nemico, desta non poche domande.
Tra queste, quella che ha a che vedere con le elezioni americane, che vedono la candidata Kamala Harris in relativa (o forte) difficoltà, nonostante le narrazioni mediatiche a lei favorevoli. La fine della guerra mediorientale – in realtà, solo una pausa prima del voto – sarebbe certo ostentata come un grande successo dalla Casa Bianca, che a parole, e solo a parole, ha sempre lavorato in tal senso. Potrebbe ridare slancio alla campagna della Harris, un po’ come fece, mutatis mutandis, l’uccisione di Osama Bin Laden al tempo della rielezione di Barack Obama.
La morte di Sinwar, figura simbolo del 7 ottobre, ha riaperto spiragli per una tregua, come da speranze di tanti. Ma Netanyahu ha gelato tutti e lo scalpo del leader di Hamas è stato ostentato come uno dei tanti nemici abbattuti in questa guerra, che ha giurato di proseguire.
Tanti analisti spiegano l’ostinazione di Netanyahu come dettata dalla volontà di favorire Trump, dimenticando che i suoi vincoli di sangue (altrui) sono, all’opposto, con i neocon che sostengono la Harris.
Il punto è che Natanyahu è una variabile impazzita del complesso puzzle geopolitico globale, come anche i suoi sostenitori messianici. Egli è il re messia e sta dimostrando una feroce resilienza nei confronti dei suoi tanti antagonisti. Le sue decisioni sono tutte dettate dall’immediato e circoscritte al suo personale disegno, al quale cerca, finora riuscendo, di piegare i desiderata altrui. E il suo disegno, ad oggi, si può sintetizzare in tre parole: guerra, guerra, guerra.
A margine, va rilevato come tanti indicassero in Sinwar l’unico ostacolo al cessate il fuoco. La reazione di Netanyahu alla sua morte mostra la relatività di tale affermazione. Peraltro, è stato ucciso quando si era convinto a riprendere le trattative (Timesofisrael).
Nella foto di apertura il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi.