Corea del Sud: il golpe fallito
Lo psicodramma sudcoreano è durato lo spazio di sei ore, durante il quale il mondo è rimasto con il fiato sospeso. Se il colpo di stato del presidente Yoon Suk-yeol fosse riuscito avrebbe cambiato la geopolitica globale, e non certo in meglio.
La mossa disperata
Quanti volevano riportare indietro la lancetta dell’orologio, agli anni orribili delle dittature sudcoreane gestite dagli degli Stati Uniti, che viaggiavano in parallelo a quelle imposte alle Filippine, hanno fallito. La Corea del Sud ha dimostrato di avere ancora un margine di libertà e ha contrastato con successo il tentativo.
I fatti sono noti. Il presidente Yoon, alle prese con un Parlamento ostile dominato dal partito democratico, ieri ha promulgato la legge marziale, dichiarando sospese tutte le attività politiche, accusando le opposizioni di tradimento dello Stato e di collusione con i “comunisti” della Corea del Nord, abolendo la libertà di stampa etc.
L’opposizione insorge e con essa lo stesso partito del presidente, il People power party, e, dopo aver superato – non senza attimi di nervosismo – lo sbarramento dei militari, gran parte dei parlamentari si riuniscono e votano per la nullità del decreto presidenziale.
I militari si ritirano e, dopo alcune ore di confusione, il presidente dichiara decaduto il decreto. Finita la farsa, il partito democratico si appresta a presentare in aula una mozione di impeachement, ma a loro dovrà aggiungersi almeno una parte degli esponenti del People power party perché servono i due terzi dei voti ed essi contano 190 parlamentari su un totale di 300. Non solo, l’impeachment dovrà poi passare al vaglio della Corte Costituzionale e anche qui serve l’approvazione dei due terzi del Collegio.
Procedura complicata che potrebbe evitare a Yoon la gogna, ma anche no, dal momento che tanti dei suoi collaboratori si sono già dimessi e con loro il ministro della Difesa che aveva sollecitato la legge marziale, Insomma, rischia l’isolamento, anche perché il leader del suo partito, Han Dong-hoon, si era opposto alla legge marziale e si è scusato pubblicamente per l’accaduto (d’altronde, rischia di alienarsi gran parte dell’elettorato).
Sulla vicenda è alquanto interessante la nota di Kiji Noh pubblicata su Consortium News, che ricorda come Yoon stesse perdendo rapidamente la popolarità iniziale a motivo della corruttela familiare, tanto che la scorsa settimana oltre 100mila sudcoreani erano scesi in piazza per chiederne la dimissioni.
Peraltro, come rileva Responsible Statecraft, su di lui si stava abbattendo l’ennesimo, devastante, scandalo, che avrebbe dato una potente spinta alla procedura di impeachment che le opposizioni avevano messo in agenda. Da cui la mossa disperata del golpe.
Il cliente degli States
A spiegare tanti retroscena è Kiji Noh, che scrive: “Yoon non vuole perdere il potere, ma, cosa ancora più importante, gli Stati Uniti non possono permettergli di perderlo: è essenziale per consolidare alleanze, accordi e la forza asiatica da usare per muovere guerra alla Cina“.
“Se Yoon se ne va, l’area della forza si rompe. Questo perché la Corea del Sud è il proxy chiave, il proxy con la più grande forza militare nell’area (500.000 soldati attivi più 3,1 milioni di riservisti). Questa enorme manodopera militare ricadrebbe immediatamente sotto il controllo operativo degli Stati Uniti qualora questi decidessero di dichiarare guerra”.
“Yoon, eletto con la vittoria elettorale più risicata nella storia coreana (0,7%), è un cliente degli Stati Uniti, sostenuto proprio perché aveva promesso di attuare una ‘strategia indo-pacifica’ sudcoreana che in realtà è un clone della strategia indo-pacifica degli Stati Uniti; una strategia bellicosa, votata all’escalation nella guerra, ibrida e militare, che si sta realizzando per contenere e abbattere la Cina”.
“Quando Yoon è stato eletto a Washington hanno stappato lo champagne. Se Yoon avesse scelto di proseguire il suo mandato attraverso la legge marziale, gli USA avrebbero probabilmente chiuso un occhio, come hanno fatto per decenni sotto Park Chung Hee e Chun Doo Hwan. La posta in gioco è toppo alta”.
Sempre Kiji Noh, scrive che la strategia Indo-pacifica perseguita da Yoon ha urtato non poco la sensibilità dei sudcoreani, perché ha portato il Paese a stringere un’alleanza formale con i vecchi padroni coloniali giapponesi, avviando in parallelo “un radicale revisionismo storico per facilitare questa bizzarra coalizione” (non sorprende: riscrivere i libri di storia è ormai parte di una strategia usuale dell’Occidente; basta vedere come si sia relegato all’insignificanza il ruolo dell’Urss nella vittoria contro il nazismo).
Non solo la Cina, Yoon, per compiacere i suoi padroni, aveva avanzato l’ipotesi di inviare armi all’Ucraina e solo una settimana fa aveva ricevuto una delegazione di Kiev, impegnandosi a cercare una collaborazione “efficace per far fronte alla minaccia alla sicurezza rappresentata dalla cooperazione militare tra Corea del Nord e Russia” (Associated Press). Ma, come scrive Strana, dopo quanto accaduto, l’Ucraina può attendere, anche perché il partito democratico si era opposto all’invio di armi a Kiev (Asianews).
Certo, l’America aveva espresso preoccupazione per la drammatica svolta impressa da Yoon, il quale probabilmente è andato ultra petitum, ma il fatto che sia stato il ministro della Difesa a suggerire la legge marziale, che certo ha legami più che stretti con gli ambienti militari degli States data la loro massiva presenza nella nazione, tende ad avvalorare l’ipotesi del cronista di Consortium news sul fatto che Washington avrebbe chiuso uno, o entrambi gli occhi, nel caso fosse riuscito nell’intento.