Giotto, Presepe di Greccio
«Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro». Così Tommaso da Celano scrive di San Francesco, nella “Prima vita” scritta tra 1228 e 1229, cioè pochi mesi dopo la sua morte.
Sono le pagine in cui Tommaso rievoca il Natale di 1223, che Francesco aveva trascorso a Greccio, piccolo borgo laziale che gli era molto caro. Aveva proposto ad un amico di dare visibilità all’“umiltà dell’Incarnazione” attraverso un presepe vivente: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».
Il gesto di Francesco aveva anche una valenza politica: era una risposta sotto traccia e pacifica ai propagandisti delle crociate. Il desiderio di immedesimarsi nella situazione di Betlemme non richiedeva altro che la semplicità di un gesto come quello che lui aveva proposto: Greccio diventava una nuova Betlemme. Lo vediamo bene nella tredicesima scena delle Storie di San Francesco dipinte da Giotto ad Assisi.
Per quanto un po’ rovinato proprio nel punto focale, ancora si intercetta l’intensità dello sguardo del santo, vestito con l’abito da diacono, che inginocchiato prende tra le mani un bambino vero chiamato ad essere in quel Natale “il Bambino”. Francesco si mette “davanti” a Gesù. Giotto è geniale nell’immaginare l’episodio: avviene al di qua del tramezzo che divideva lo spazio del clero da quello del popolo anche nelle chiese francescane.
Ma la porta del tramezzo questa volta è aperta e le persone si affacciano, mosse dallo stesso desiderio di Francesco. Il pulpito in alto a sinistra è vuoto. «La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima», scrive Tommaso. Il Natale è spazio senza barriere. Poi Tommaso svela un altro dettaglio: «Quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole».
Il corrispettivo visivo di queste parole è nel gesto di Francesco, nella cura trepida con cui prende tra le braccia il bambino Gesù, nella semplicità di quel suo chinarsi davanti all’“umiltà dell’Incarnazione”.
Con questo riquadro, Piccolenote augura un felice Natale ai lettori