Trump e il nuovo volto dell'Impero d'Occidente
Il discorso di Trump nel quale ha dichiarato che l’America intende prendere il controllo del canale di Panama, della Groenlandia e fare del Canada il 51° Stato degli Usa ha scandalizzato l’Occidente. Politici e media si sono affrettati a condannare la brutalità di Trump, come se la brutalità fosse un tratto distintivo del nuovo presidente, che si distaccherebbe in tal modo dall’esercizio più civile del potere imperiale dell’attuale presidenza.
E ciò nulla importando degli orrori di Gaza, resi possibili solo dal supporto incondizionato degli States a Israele, e la guerra ucraina, che ha incenerito un’intera nazione sotto la spinta dei circoli iper-atlantisti che l’hanno (ab)usata come un ariete contro la Russia (l’elenco delle avventure mortifere dell’amministrazione Biden-Blinken-Harris potrebbe continuare, ma ci fermiamo qui).
Trump ha semplicemente reso palese ciò che prima era nascosto dalla cortina fumogena dei cosiddetti valori occidentali, dai richiami alla democrazia, alla libertà e alle regole che l’Impero d’Occidente ha da tempo inteso come subordinati ai più biechi interessi degli Stati Uniti e in particolare della sua élite.
E se è motivo di scandalo anche il fatto che Trump abbia rivolto la sua assertività verso Paesi alleati, non va dimenticato che ciò è accaduto anche con questa amministrazione Usa e in maniera più che brutale, basti pensare al sabotaggio del Nord Stream 2, che ha messo in ginocchio la Germania e l’Europa tutta, vieppiù provata quest’ultima dal pesante tributo pagato per sostenere la guerra ucraina, sia in termini di supporto finanziario a Kiev che di sanzioni, che invece di mettere in ginocchio la Russia hanno eroso le capacità produttive del Vecchio continente.
Sfrondato il campo dagli equivoci, proprio le mire dirette verso regioni e Paesi alleati, e l’assenza nel discorso di analoghe minacce verso i competitor globali, segnala le direttrici che intende perseguire nel suo mandato.
Tuonare per trattare
Rendere di nuovo grande l’America, per Trump, passa da quelle direttrici, che consentirebbero agli States di controllare il cruciale transito commerciale di Panama e sfruttare le immani risorse dell’isola danese e del Canada, ma soprattutto delle ancor più ricche aree artiche sulle quali insistono, una corsa che la Russia ha iniziato oltre un decennio fa.
Resta invero difficile credere che voglia usare la forza per conquistare la Groenlandia (no, non bombarderà Copenaghen…), mentre tale opzione l’ha esclusa esplicitamente per il Canada, invece rientra nel campo delle possibilità che s’imbarchi in una commendevole avventura panamense, ripercorrendo le orme dell’invasione decisa al tempo da George H. W. Bush (fine 1989 inizio ’90).
E però, in realtà, è più che probabile che tale assertività sia brandita per arrivare ad accordi – tante le possibilità in proposito – che permettano alle compagnie statunitensi di sfruttare le risorse della Groenlandia, del Canada e del canale di Panama e diano accesso agli Usa alle ricchezze artiche, magari in combinato disposto con Copenaghen e Ottawa.
Certo, c’è sempre la possibilità che sia la stessa Groenlandia a staccarsi dalla Danimarca grazie alle fortissime spinte indipendentiste autoctone, che possono essere rafforzate dall’esterno come denota la visita del figlio di Trump nell’isola artica svoltasi in parallelo alle sparate paterne.
Nel qual caso, l’acquisizione da parte degli States sarebbe una conseguenza inevitabile. Tale sviluppo, peraltro, in un ottica di scambio, potrebbe aprire la via per il ritorno di Taiwan all’ovile continentale – possibile se viene meno la spinta esterna per l’indipendenza – chiudendo la querelle insulare a rischio terza guerra mondiale che Trump ha sempre trattato come un pericolo da evitare (in proposito, ha ricordato come l’isola sia molto lontana dall’America e troppo vicina alla Cina).
L’inferno mediorientale
Nel descrivere tali scenari non si tratta di derubricare le dichiarazioni di Trump a mere boutade, quanto ricordare come nel corso della sua pregressa presidenza abbia fatto seguire a simili intemerate una prassi di tutt’altro segno; esemplare in tal senso il caso nordcoreano, quando al feroce duello verbale con Kim Jong-un è seguito un tentativo di rappacificazione tanto necessario alla pace globale (mentre la pacifica presidenza Biden ha sostenuto le forze sudcoreane più aggressive nei confronti di Pyongyang).
Nel suo discorso, anche il conflitto mediorientale, rispetto al quale ha ribadito la richiesta-minaccia ad Hamas di liberare gli ostaggi israeliani prima del suo insediamento. Nel riferire tale cenno, i media si sono concentrati sull'”inferno” promesso da Trump nel caso di inadempienza.
In realtà, il Medio oriente è già preda di un fuoco infernale, che sta consumando Gaza e la Cisgiordania, ed è davvero difficile peggiorare la situazione. Nessuno, però, ha riportato la frase integrale di Trump che è questa: “Non sarà un bene per Hamas e non sarà un bene per nessuno”.
Ha cioè avvertito che nessuno, Israele compresa, sarà esente da danni se la situazione peggiorerà, cosa che accadrebbe se Trump fosse costretto – dalla squadra neocon che ha imbarcato e da quasi tutto il Congresso Usa – a intervenire.
Quanto agli antagonisti degli Usa, Trump ha glissato la domanda su un possibile intervento contro l’Iran (sul tema vedi anche la nota pregressa), ha nominato la Cina solo come un competitor commerciale (in riferimento al canale di Panama) e ha riaffermato la sua volontà di avviare un negoziato con la Russia sulla guerra ucraina, iniziata, ha detto, perché Biden ha “rotto il patto” fatto con Mosca, promettendo a Kiev l’ingresso nella Nato. Errore catastrofico.
Sviare per negoziare
Peraltro, sottolineando altre priorità, Trump si è tirato indietro dalle varie conflittualità attuali. Per restare su tali priorità, al di là della querelle, pure decisiva, sull’uso della forza, l’idea sottesa a tali indicazioni è quella che, per competere con gli Imperi d’Oriente in ascesa, quello d’Occidente deve ampliare il controllo su aree strategiche finora ignorate.
La prospettiva dell’unipolarismo, per Trump e l’élite che lo sostiene (e tanti altri), ha visto il suo canto del cigno in Ucraina, guerra con cui i suoi fautori speravano di far collassare la Russia e fare della Cina, ormai isolata, la successiva vittima predestinata. Prospettiva che ha subito una secca sconfitta.
La presidenza Trump – almeno nei suoi desiderata, poi è da vedere – vuole evitare i rischi di uno scontro militare con i competitor globali e di innescare conflitti regionali a rischio globale, concentrandosi sulla crescita dell’Impero d’Occidente e limitando la rivalità tra potenze a un livello economico-finanziario e di influenza.
Ma perché ciò accada, occorrerà, prima o poi, avviare negoziati con Pechino e Mosca e delineare delle linee rosse che evitino incidenti e attriti potenzialmente fuori controllo. Da qui anche il cenno sulla sicurezza del mondo libero che l’America sarebbe chiamata a garantire (destino che Trump deve pur continuare a brandire, in linea con le presidenze pregresse, per conservare la presa sulle colonie).
Di tale prospettiva accenna Alastair Crooke, su Strategic Culture: Trump, a “tempo debito”, sarà portato a riconoscere “gli interessi di sicurezza ‘dell’Heartland‘ asiatico e dei BRICS per concordare una linea di confine con la sfera di sicurezza del Rimland (atlantico), così che si possa stabilire una cooperazione sulle questioni relative alla stabilità strategica globale e della sicurezza europea”.