L'opzione neocon: pace a Gaza e in Ucraina, guerra all'Iran
Si moltiplicano i segnali incoraggianti su un possibile accordo tra Hamas e Israele. Tra questi, l’incontro tra Netanyahu e i due leader dell’ultradestra, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che hanno minacciato sfracelli se l’accordo va in porto. È chiaro che se il premier israeliano avesse voluto far fallire i negoziati, come ha fatto finora, non avrebbe cercato di placarli.
Gli ostaggi israeliani e quelli palestinesi
Di questo summit scrivono Jonathan Lis e Ben Samuels su Haaretz, spiegando che il premier israeliano è convinto che i due non si precipiteranno a far cadere il governo se i negoziati andranno in porto – minaccia che ha contribuito ad affossare trattative pregresse – anche perché convinti che l’amministrazione Trump darà mano libera a Israele sulla Cisgiordania.
Opzione, quest’ultima, che però è messa in dubbio, secondo i cronisti di Haaretz, dalla speranza di Netanyahu di far aderire l’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo, dal momento che per Riad sarebbe difficile normalizzare i rapporti con Israele in costanza di tale disastroso sviluppo.
Al di là della querelle sulla Cisgiordania, pure decisiva, nell’ipotetico accordo con Hamas sembra che sia previsto che Israele liberi anche prigionieri di alto livello, a patto, però, che vadano all’estero (impossibile non pensare che tra questi ci sia anche Marwan Barghuti, figura ormai iconica dell’immaginario palestinese).
Sulla questione degli ostaggi, uno scritto di Gideon Levy su Haaretz, nel quale denuncia con forza la cattività degli ostaggi israeliani e accredita come più che doverosa la campagna per liberarli, ma, allo stesso tempo, accusa di parzialità la narrazione corrente perché del tutto disinteressata alla sorte dei palestinesi.
“Ci sono 98 prigionieri israeliani trattenuti da Hamas – scrive Levy – ma i prigionieri palestinesi nelle mani di Israele sono 10 o forse 100 volte più numerosi. Anch’essi sono ostaggi, trattenuti senza processo e senza avvocato, senza poter ricevere visite dalla Croce Rossa, privati della loro identità e della possibilità di inviare messaggi alle proprie famiglie”.
“La maggior parte di essi sono innocenti, come lo sono i prigionieri israeliani e la crudeltà nei loro confronti durante la prigionia non è da meno della crudeltà di Hamas. Ignorare il loro destino equivale a usare doppi standard”.
“Nella narrazione israeliana [e altrove ndr] non si fa nessuna menzione degli ostaggi palestinesi. Non possono nemmeno essere etichettati come ostaggi. Dopo tutto, cos’è il dottor Hussam Abu Safiya, il direttore del Kamal Adwan Hospital, se non un ostaggio? Israele ha prima cercato di farlo sparire, alla stregua del più oscuro dei regimi, come Hamas, finché non ha ammesso di tenerlo prigioniero. Il rischio per la sua vita in una prigione israeliana è grave quanto il rischio per la vita di ogni ostaggio israeliano tenuto prigioniero da Hamas. Almeno 68 ostaggi palestinesi sono morti in carcere per le torture, la violenza o la privazione di assistenza medica”.
Uno dei fattori che potrebbe contribuire al raggiungimento di un accordo su Gaza è anche l’ossessione di Netanyahu per aprire una guerra contro l’Iran, sogno ultradecennale che spera si possa realizzare grazie all’amministrazione Trump, nella quale figurano diversi esponenti neocon che condividono con lui questa nefasta aspirazione. Chiudere la guerra di Gaza permetterebbe a Israele di concentrarsi sul solo Iran.
Pace in Ucraina e guerra all’Iran
Abbiamo accennato più volte al fatto che Trump è avverso a questa tragica avventura, inutile ripetersi. A confermare tale avversità anche la chiacchierata più che amichevole che il futuro presidente degli Stati Uniti ha avuto con Obama al rito funebre del presidente Carter – catturata da un video diventato virale – che Trump ha poi descritto come un momento “meraviglioso“.
L’episodio potrebbe essere derubricato a gossip, ma bisogna tener presente che Obama rappresenta il nemico pubblico numero uno dei neocon proprio perché ha avuto l’ardire di siglare l’accordo sul nucleare iraniano, l’iniziativa di politica estera più importante della sua presidenza (non dimentichiamo altre sue iniziative, più che commendevoli – l’aggressione alla Libia, in particolare – ma l’intesa con l’Iran resta quella più importante e che gli ha attirato l’odio irrevocabile dei fautori della guerra all’Iran).
Trump sapeva perfettamente come sarebbe stata interpretata da certi ambiti la sua conversazione con Obama, ma era proprio quello lo scopo, inviare un segnale chiaro all’indirizzo dei falchi anti-Iran che si annidano negli Usa e in Israele. Peraltro, il fatto che Obama sia l’ex presidente più odiato anche in ambito Maga rende l’amabile colloquio di Trump, e l’elogio successivo dello stesso, ancora più significativo.
E però a Trump sarà arduo contrastare le spinte per incenerire l’Iran, modulate al momento attraverso il ritorno della politica di “massima pressione” contro Teheran che, sebbene escluda sul momento l’opzione militare, di fatto la prospetta.
Dalle dichiarazioni dell’inviato di Trump per l’Ucraina Keith Kellogg, più che realistiche sulla crisi ucraina quanto dure nei confronti di Teheran (criticità sulla quale non dovrebbe parlare essendo il suo incarico limitato), appare chiaro che i falchi che ingolfano la futura amministrazione Usa stiano tentando un compromesso con il loro presidente: la pace in Ucraina in cambio di una guerra all’Iran; accordo offerto, di fatto, anche a Putin, nella speranza di convincerlo a non interferire.
Ne accenna anche Alastair Crooke sul sito del Ron Paul Institute: “Sfortunatamente, l’altro possibile modo per ‘bilanciare’ l’apparente sconfitta americana e della NATO in Ucraina, per i consiglieri falchi di Trump, potrebbe essere quello di polverizzare l’Iran – per inviare un segnale della ‘virilità’ americana”.
Nuvole basse in Medio oriente, impossibile intravedere l’orizzonte. In attesa, due piccoli segnali positivi, che pure vanno registrati. Il primo è che a Ginevra la delegazione di Teheran ha incontrato quelle di Francia, Germania e Gran Bretagna sulla questione del nucleare iraniano. Non ne uscirà nulla, ma la prosecuzione dei contatti segnala che il conflitto non è destino irrevocabile.
Molto più importante il fatto che, dopo l’allarme di Macron sull’incombenza di “un punto di rottura” con Teheran perché persevera nell’arricchimento dell’uranio, è arrivata la secca smentita del capo della Cia William Burns, il quale ha affermato che “gli Stati Uniti non hanno riscontrato alcun segnale che l’Iran abbia deciso di costruire un’arma nucleare” (Antiwar).
Purtroppo, la realtà non conta nulla in queste cose e il pericolo dell’atomica iraniana è brandito alla stregua delle famose armi di distruzione di massa di Saddam, anche perché la spinta per attaccare l’Iran proviene dagli stessi circoli internazionali. A decidere se sarà guerra o meno saranno i rapporti di forza. Si può solo attendere l’esito di questo braccio di ferro.
Nella foto di copertina un ritratto di Marwan Barghuti con le manette ai polsi, dipinto su una barriera di cemento vicino a Ramallah nel 2010