Gaza e Libano: la fragile tregua tiene

Ieri sembrava che il Medio oriente stesse sprofondando di nuovo nell’abisso della guerra totale. Israele, infatti, aveva tenuto fede all’annuncio che non si sarebbe ritirato della posizioni acquisite nel Libano meridionale, ritiro che avrebbe dovuto essere completato entro ieri, e, sempre in violazione agli accordi sul cessate il fuoco, stavolta con Hamas, non avrebbe consentito ai palestinesi di rientrare nel Nord di Gaza.
Violazioni pretestuose degli accordi
A pretesto per la prima violazione Israele aveva preso il mancato dispiegamento delle truppe libanesi nel Sud, ma è arrivata la secca smentita dell’esercito del Paese dei cedri che ha comunicato di essere “pronto a continuare il suo dispiegamento non appena il nemico israeliano si ritirerà”.
Come pretesto per la seconda violazione aveva usato il fatto che Hamas non aveva rispettato l’accordo perché, tra gli ostaggi liberati, mancava Arbel Yehoud, nulla importando la giustificazione della controparte, cioè che la “difficoltà nel rilasciarla è tecnica, perché è trattenuta dalla Jihad islamica palestinese”, un’altra milizia presente a Gaza (Haaretz).
La decisione di Tel Aviv di tenere chiuso il valico di Netzarim, che divide il Nord dal Sud di Gaza, e l’uccisione di due palestinesi nei pressi della barriera (decine i feriti) ha fatto irrigidire Hamas, che ha minacciato di non consegnare alla controparte la lista degli ostaggi ancora in vita, come prevedevano gli accordi.
Ancora più drammatici gli sviluppi in Libano, dove i cittadini dei villaggi del Sud hanno tentato di tornare nelle loro case, con i soldati israeliani che hanno ucciso 22 civili disarmati per tenerli lontani.
Insomma, ieri sembrava che tutto dovesse saltare in aria, ma poi è successo qualcosa che ha sbloccato la situazione. È evidente che sono intercorse trattative ad alto livello su entrambe le criticità, come è evidente che si è trovato un accordo quadro globale, seppur precario.
Così il Libano ha accettato una nuova data per il ritiro israeliano dal Sud, procrastinato al 18 febbraio, e Hamas e la Jihad islamica hanno annunciato che Arbel Yehoud sarà liberata giovedì prossimo. Nel frattempo, Hamas ha consegnato a Israele l’elenco degli ostaggi ancora in vita che saranno liberati nella prima fase del cessate il fuoco, 25 in totale, informazioni che corrispondono ai dati in possesso dell’intelligence israeliana.
Insomma, la ripresa della guerra per ora è scongiurata, anche se, come annota Amir Tibon su Haaretz, “l’accordo rimane fragile e ci sono molte forze che cercano di farlo fallire, tra cui esponenti autorevoli del governo Netanyahu”.
Perché l’intesa su Gaza prosegua, continua Tibon, “ci vorrà una pressione costante da parte dei paesi mediatori (Stati Uniti, Egitto e Qatar) per farla funzionare. La pressione dovrà essere esercitata su Hamas, ma anche su Netanyahu e i fanatici del suo governo. Ciò è stato vero fin dal primo giorno e rimane vero anche oggi: l’accordo sopravviverà solo se gli americani spingeranno attivamente le due parti a continuare a portarlo avanti”. Un cenno utile anche a spiegare quanto accaduto, cioè che l’America ha fatto pressioni per far proseguire la tregua.
Le parole improvvide di Trump
Detto questo, resta l’ambiguità di Trump sul conflitto israelo-palestinese: se da una parte il presidente Usa diffida di Netanyahu, dall’altra non è immune dalle pressioni della destra israeliana, tanto da esporre l’idea che la Giordania e l’Egitto si prendano in carico i palestinesi di Gaza.
Lo ha fatto in un’intervista volante rilasciata sull’Air Force one, nel corso della quale ha accennato al lungo conflitto, alla distruzione di Gaza, una Striscia da “ripulire” – dove il verbo va riferito alle macerie e non ai palestinesi, come da interpretazioni varie, anche considerando che della “massiva demolizione” di Gaza aveva già parlato alcuni giorni fa senza fare riferimento ai palestinesi.
Voce dal sen fuggita, che in parte rivelava la sua adesione, dovuta o meno che sia, alle prospettive della destra israeliana, e non solo, ma anche a mitigarne le ire suscitate dalle sue pressioni su Tel Aviv per ottenere il cessate il fuoco a Gaza. Parole al vento che hanno innescato la pronta reazione dei Paesi arabi, i quali hanno rigettato la prospettiva di una pulizia etnica di Gaza, perché di questo si tratta quando si parla di espulsione dei palestinesi.
Sul punto, è definitiva la conclusione dell’editoriale di Haaretz: “È impossibile risolvere il conflitto israelo-palestinese con soluzioni magiche, di certo non quando fanno rima con trasferimento e comportano la pulizia etnica. È meglio non tirare fuori idee il cui unico potenziale è quello di sabotare gli accordi di pace di Israele con Egitto e Giordania”.
Purtroppo, mentre su altri dossier Trump, almeno al momento, appare libero, sia di fare sciocchezze (come denota la telefonata durissima con il primo ministro danese per la cessione della Groenlandia), sia di intraprendere iniziative lodevoli, come la spinta per una de-escalation con Russia e Cina, sul conflitto israelo-palestinese non lo è affatto. Né esistono soluzioni magiche, come annota appunto Haaretz.
Peraltro, il trasferimento dei palestinesi non darà luogo solo a una crisi con Egitto e Giordania, ma porterebbe a compimento il genocidio palestinese iniziato sotto la presidenza Biden, perché non se ne andranno con le buone.
Ma Trump è pragmatico e ci ha abituato a una prassi diversa dalle sue dichiarazioni, come dimostra il fatto che la sua amministrazione abbia spinto per far tornare i palestinesi nel Nord di Gaza in parallelo a quelle improvvide dichiarazioni.
Purtroppo, dal momento che sia in America che in Israele prevalgono le forze che escludono dall’orizzonte la nascita dello Stato palestinese e forti sono le pulsioni per la Grande Israele, occorre rassegnarsi al fatto che, per quanto riguarda l’interazione tra Washington, Tel Aviv e i suoi antagonisti regionali, si naviga a vista. L’orizzonte è talmente ristretto che si sta appesi ai giorni, annotando di volta in volta i momenti critici.
Così per ora l’attenzione va focalizzata sui primi di febbraio, quando inizierà la fase due del negoziato tra Hamas e Israele, nella quale dovrebbero essere affrontate le questioni chiave. Momento in cui potrebbe di nuovo collassare la fragile tregua di Gaza, portando con sé forse anche quella libanese.
Di oggi, anche l’annuncio di un possibile viaggio di Netanyahu a Washington. In genere porta sfortuna, com’è accaduto nel precedente, coinciso con l’inizio della guerra aperta contro Hezbollah, come peraltro prevedibile (e previsto da Piccolenote). Ma il portavoce di Netanyahu ha poi smentito. Speriamo bene.