Trump e la deportazione dei palestinesi
Nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, in visita negli Usa, Trump ha reso ufficiale quanto aveva in precedenza: i palestinesi verranno espulsi da Gaza e gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia. Mai un crimine contro l’umanità (pulizia etnica) era stato dichiarato in maniera così pubblica da un presidente degli Stati Uniti. Trump non maschera la brutalità propria dell’esercizio del potere imperiale.
La bomba sulla tregua
I palestinesi, chiaramente, hanno reagito con legittima indignazione a tale prospettiva, che peraltro rischia di far collassare la fragile tregua di Gaza che proprio ieri entrava nella seconda e decisiva fase in cui le parti tratteranno del ritiro israeliano e del futuro dalla Striscia e Hamas procederà alla liberazione dei restanti ostaggi.
Ma, mentre Hamas annunciava di essere pronto al nuovo round di negoziati, Trump sganciava una bomba nucleare su di essi. Infatti, la richiesta del ritiro dell’esercito israeliano da parte della milizia islamica aveva come sottinteso che Gaza restasse ai palestinesi. L’improvvida dichiarazione di Trump nega tale opzione.
I danni di tale dichiarazione sono, dunque, non solo di prospettiva, ma anche immediati. Il rischio è che Hamas si ritiri dalle trattative e riprenda la mattanza di Gaza. Per ora Hamas si è limitata a chiedere a Trump di ritrattare e agli Stati arabi di far pressioni sul loro alleato, ma il futuro è incerto.
La prospettiva di Trump è folle: i palestinesi non se ne andranno con le buone. E se non assisteremo a vagoni blindati carichi di deportati è solo perché non ci sono ferrovie a Gaza. In alternativa, potremmo vedere i soldati spingere i poveri disgraziati sugli appositi autobus.
Sempre che ci sia chi accolga tali convogli della disperazione. L’Egitto e la Giordania, Paesi citati da Trump, hanno rifiutato. Né si vedono all’orizzonte Stati disposti a farsi carico dei palestinesi e di tali crimini.
Certo, come spiegava Jack Khoury su Haaretz, Trump ha leve per piegare Egitto e Giordania, da cui la necessità che il “no” sia accompagnato da alternative. Ma la deportazione di un milione e ottocentomila palestinesi è qualcosa di così enorme che quel “no” è un macigno difficile da spostare.
La resistenza
C’è poi il problema della resistenza armata. La deportazione di massa, a stare alle parole del presidente, andrebbe in parallelo con lo sgombero delle macerie e la ricostruzione di Gaza. Impresa affidata alla sorveglianza dei soldati americani, che quindi diverrebbero bersaglio degli attentati della resistenza, che rischia di durare a lungo.
La deportazione, infatti, farebbe nascere un irredentismo nuovo: l’aspirazione alla patria palestinese rimarrebbe nella diaspora, alimentando una resistenza, armata e non, molto più dura dell’attuale, perché ancora in parte sedata dall’attesa di una patria palestinese.
Tante le incognite delle improvvide dichiarazioni di Trump che è legittimo chiedersi perché si sia esposto tanto. Certo, le sue posizioni pro-Israele durante il conflitto erano chiare, anche se in campagna elettorale le aveva accompagnate con appelli per il cessate il fuoco.
È ovvio che doveva accontentare la destra ebraica per riceverne supporto alla sua politica. Ma tale cedimento innesta una variabile impazzita nella “rivoluzione del buon senso” – come ha definito la svolta prodotta dalla sua vittoria – rischiando di compromettere tutta la sua agenda votata a mutare la competizione militare su scala globale (diretta o tramite regime-change) in competizione commerciale. Perché insieme al Medio oriente rischia di incendiare il mondo.
Sui media israeliani, il giubilo della destra messianica, ma anche scetticismo. Inutile accennare alla riprovazione di diverse note di Haaretz, più utile riferire l’allarme di Lazar Berman sul Timesofisrael nell’articolo dal titolo: “Il piano di Trump per Gaza non si concretizzerà, ma può di certo sconvolgere la regione”.
Scettica anche Einav Halabi su Yedioth ahronoth che riporta la battuta di Trump “sulle bellissime spiagge” della Corea del Nord al tempo in cui cercava di fare la pace con Pyongyang, così simile alle parole profuse per le spiagge di Gaza, commentando come il naufragio del processo di pace nordcoreano sia un promemoria per l’attuale piano sulla Striscia.
Detto ciò, di interesse la nota di Alon Pinkas su Haaretz, secondo il quale Trump ha straparlato di un piano irrealistico, illogico e impossibile, atto solo a distrarre. “Cosa ha ottenuto Netanyahu dal suo viaggio a Washington? – conclude – Qualche giorno di tregua per i sostenitori della sua coalizione, durante i quali può cercare di convincerli che Trump ha dimostrato che permetterà a Israele di riprendere la guerra. E Trump l’ha fatto? No”.
Iran e Cisgiordania
Resta grande l’incertezza sulla Cisgiordania, dove Israele sta dispiegando una feroce campagna militare. Per ora Trump si è limitato a battute in cui sembra adombrare il suo favore per l’annessione da parte di Israele.
Ma il Jerusalem Post nel riferire che sulla questione si pronuncerà tra quattro settimane, rivela che “in recenti colloqui a porte chiuse” Trump ha detto “che l’annessione della Cisgiordania era fuori discussione”. Da vedere resterà su tale posizione. Un’opzione potrebbe essere la cessione di Gaza a Israele in cambio di uno Stato palestinese in Cisgiordania, ma ad ora appare irrealistica.
Infine, il nodo Iran, sul quale Netanyahu probabilmente avrà fatto pressioni su Trump, dal momento la guerra contro Teheran è per lui ossessione maniacale. Sembra che sul tema ci sia discordia tra i due.
Infatti, se è vero che Trump ha dato al suo interlocutore una piccola soddisfazione, firmando un decreto che rinnova la massima pressione contro Teheran, è pur vero che ha ribadito di non volere la guerra, ma un “accordo immediato” con l’Iran.
Lo riporta il Timesofisrael, che in altro articolo, titola: “L’Iran accoglie con favore i tagli agli aiuti esteri di Trump mentre entrambe le parti accennano ai negoziati sul nucleare”. Così il sottotitolo: “Nonostante le parole dure, i leader degli Stati Uniti e dell’Iran lasciano la porta aperta ai negoziati mentre Trump taglia i finanziamenti” agli “attivisti pro-democrazia”.
Netanyahu non si accontenterà della massima pressione. Ed è più che probabile che la decisione di restare negli Usa fino a sabato discenda proprio dalla necessità di cercare sponde alla sua guerra.
Insomma, resta la discordia tra i due politici, al di là delle pubbliche manifestazioni di affetto. Un affetto che Netanyahu ha dimostrato regalando a Trump un cercapersone, in ricordo dell’operazione israeliana contro Hezbollah, con Trump pronto a lodare dono e ricordo annesso. Regalo bizzarro anche perché la battuta “vuoi un cercapersone?” in questi mesi è stata percepita come una velata minaccia da alcuni destinatari della stessa.