La riforma del Senato e la deriva elitaria dell'Unione europea
Tempo di lettura: 2 minutiAlla fine arriva un compromesso. Stante le tante resistenze al progetto di riforma del Senato ideato dai renziani, anche il Matteo nazionale si è convinto che l’idea di fare dell’augusta aula del Parlamento italiano una bocciofila non può passare. Deve averglielo spiegato anche Napolitano che i numeri per fare la “sua” riforma non ci sono. E il compromesso sarà che il Senato sarà composto anche, o solo, da membri eletti e non solo un luogo di rappresentanza composto da Presidenti di Regione, sindaci e figure scelte dal Quirinale. L’Italia ha dimostrato che non è ancora una Repubblica delle banane. Certo, il compromesso potrà essere al rialzo o al ribasso, si vedrà nelle consultazioni che si stanno susseguendo sul tema e che coinvolgono diversi partiti e ambiti della società civile, ma l’ipotesi tragica di una riforma che metteva a rischio la tenuta democratica dell’Italia (come da intervento del Presidente del Senato Pietro Grasso) sembra scongiurata.
A far cambiare idea al rottamatore le tante voci dissonanti, ma anche una novità significativa: il fatto che una proposta di riforma immaginata da un esponente del Pd, Vannino Chiti, ha trovato eco nell’area grillina (al di là di altre differenze, la proposta intende salvare il meccanismo elettivo oggi vigente). Un’asse inedita quella tra l’esponente Pd e movimento cinque stelle, con tanto di endorsement conclusivo da parte di Beppe Grillo. Convergenza pericolosa per Renzi, tanto che, se la sua posizione non fosse cambiata, rischiava di mandare in minoranza il governo.
Ora Chiti pare sia rimasto isolato anche dai suoi, la minoranza del Pd che è prossima a compattarsi nell’area riformista, e forse questa convergenza ormai appartiene al passato. E però segnala una novità, ovvero lo sdoganamento del M5S nel gioco democratico: cosa impedita finora da una parte dall’antagonismo acceso dei grillini e dall’altra da una sorta di conventio ad escludendum da parte di possibili interlocutori (almeno su certi temi, ché a parole tutti dicono di voler parlare con loro).
Se confermata, questa svolta sarebbe una novità notevole nel panorama politico italiano, che non può permettersi, soprattutto in questo momento critico, che il secondo partito italiano, o forse il primo si vedrà alle elezioni europee, sia relegato, o si releghi che dir si voglia, a un’opposizione intransigente.
Va segnalato che proprio in vista delle europee, la narrativa dei giornali ha insistito nel dipingere il M5S come un pericolo per la democrazia, espressione di un pericoloso populismo antieuropeo. È di questi giorni la notizia che i sondaggi danno come primo partito inglese proprio un partito fortemente critico verso l’Europa, l’Ukip (Partito per l’indipendenza del Regno Unito) di Nigel Farage. Certo, in Inghilterra l’antieuropeismo è di casa, ma questa ventata di critiche nei confronti della Ue, che non è solo italiana e inglese, non può essere liquidata come una malattia collettiva di masse incapaci di discernimento: è il segno dell’insoddisfazione dei cittadini verso quel che è diventata l’Europa, un organismo burocratico asservito ai desiderata delle banche. Ed è insieme una forte critica ai partiti tradizionali che hanno assecondato questa deriva. È la richiesta di una svolta, di un ritorno a quell’Europa dei popoli sognata dai fondatori che va presa in seria considerazione, anzitutto per salvare l’Unione europea dalla tragedia nella quale è precipitata.