L'attacco a Hurghada e il processo di pace libico
Tempo di lettura: 3 minutiIeri un commando ha attaccato un resort di Hurghada, una delle mete turistiche più rinomate dell’Egitto. Per fortuna la sicurezza ha fatto il suo lavoro, vanificando il tentativo: solo tre i feriti tra i turisti, mentre a terra sono rimasti gli assalitori. Le autorità minimizzano, spiegando che si è trattato di un tentativo di rapina, ma le testimonianze dei presenti e la dinamica dei fatti, con assaltatori giunti a destinazione via mare, lasciano poco spazio ai dubbi: azione terroristica made in Isis.
L’azione, come spiega un articolo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini sulla Repubblica di oggi, era diretta a colpire il turismo, che è poi la fonte di introiti più importante del Cairo. Colpire il turismo per «destabilizzare l’Egitto», recita il felice titolo dell’articolo.
Ma colpire l’Egitto ha anche una valenza diversa: Il Cairo sta giocando un ruolo importante nel processo di stabilizzazione della Libia, che proprio in questi giorni vive giorni cruciali. Da sempre infatti l’Egitto sostiene il governo di Tobruk, l’unica delle entità politiche sorte dalle ceneri della guerra libica riconosciuta a livello internazionale. Ed è proprio su Tobruk che la comunità internazionale sta puntando per mettere ordine nel caos libico, tanto è vero che Fayez Serray, il capo di governo designato dall’Onu che dovrebbe insediarsi a breve (dove il condizionale è d’obbligo), è espressione di Tobruk.
Ovviamente il processo di stabilizzazione libica prevede compromessi con le altre entità politiche del Paese, in particolare le milizie islamiste insediatesi a Tripoli e quelle che controllano Misurata, ma il perno dell’operazione è Tobruk, appunto. Così l’attacco avvenuto ieri in Egitto serve anche a complicare il processo di pace libico, mettendo in difficoltà uno dei suoi principali protagonisti.
Un processo di pace complesso e delicato quello libico, che ricalca lo schema tracciato a suo tempo dall’inviato Onu per la Libia Bernardino Leon, e che rappresenta l’ultima spiaggia per portare pace in quell’angolo di mondo. Lo sanno bene le agenzie del terrore, che proprio in questi giorni hanno scatenato offensive in varie parti del Paese (come scritto in una precedente nota).
Giorni di fibrillazione questi per l’Isis, il cui attivismo ha sfiorato anche l’Occidente. Giovedì, nell’anniversario della strage di Charlie Hebdo, a Parigi un fanatico è stato freddato davanti un commissariato di polizia: pare avesse intenzione di farsi saltare in aria. Nello stesso giorno, verso mezzanotte, un altro fanatico ha sparato 11 colpi di pistola contro un agente di polizia negli Stati Uniti (Filadelfia). Arrestato, ha dichiarato di aver agito nel nome dell’Isis.
Lupi solitari, come quelli che a dicembre hanno compiuto, almeno a detta degli inquirenti, la strage di San Bernardino. Per questo, al di là della portata minima delle loro azioni, infondono paura.
È la strategia della tensione: al di là dell’esito, le operazioni vere o presunte compiute dall’Isis o dai suoi fans servono a tenere alto l’allarme, a non far scemare l’onda di paura suscitata dalle azioni più eclatanti compiute in precedenza (stragi Parigi). D’altronde fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce.
Ma proprio per questo è necessario che i processi di stabilizzazione avviati con fatica in questi mesi grazie alla convergenza (sempre incerta) tra Stati Uniti e Russia giungano in porto.
Dopo che sul processo di pace siriano è deflagrata la bomba della decapitazione dello sceicco sciita Nimr al-Nimr (vedi Postilla), ora le forze del caos intendono far deragliare anche il processo di stabilizzazione della Libia. Vedremo.