La talare, «il segno che sono di Gesù»: il martirio del piccolo Rolando Rivi
«Il Signore l’ha rivestito di gioia, gli ha donato sul capo una splendida corona». Chissà se e quante volte Rolando Rivi avrà ascoltato le parole di questo responsorio breve tratto dall’ora sesta del Comune di un martire, che i sacerdoti, recitando il Breviario, ripetono nei giorni in cui la Chiesa fa memoria di coloro che hanno versato il proprio sangue per Gesù. Di certo per quel piccolo seminarista reggiano, ucciso in odium fidei nell’aprile 1945 da un gruppo di partigiani “rossi”, la veste talare e il saturno, indossati sin dall’età di 11 anni, ossia dal suo ingresso in seminario, furono già in vita «veste di gioia» e «splendida corona», segni di una promessa di felicità che il Signore gli aveva annunciato assai precocemente.
Per capirlo, basta osservare la foto di Rolando, quella in cui il nero della veste e del cappello fanno da cornice ad un volto luminoso, bambino, reso vivace da un lieve accenno di sorriso e ancor più da due grandi occhi bruni, nei quali un brillio appena percettibile esprime la gioia e il pizzico di fierezza provata dal giovanetto nell’essere ritratto così, con indosso l’abito che mostrava al mondo la sua appartenenza a Cristo. Del resto lo ripeteva a tutti: «Io studio da prete, e la veste nera è il segno che sono di Gesù».
È una storia semplice quella di Rolando, iniziata il 7 gennaio 1931 nel casolare detto “Poggiolo”, a San Valentino, minuto borgo del comune di Castellarano in provincia di Reggio Emilia. Quella nascita venne salutata dai Rivi, famiglia di umili e devotissimi contadini, con grande gioia; il giorno seguente il bimbo venne battezzato con il nome di Rolando Maria e posto su un altare per essere offerto alla Madonna.
Un’infanzia felice la sua, trascorsa tra giochi spericolati, corse e birichinate di vario genere: «O diventerà un mascalzone o un santo! Non può percorrere una via di mezzo…», dicevano i suoi. Ma al di là dei giochi e delle marachelle, ciò che colpiva quel bimbo estremamente precoce era la vista di papà Roberto che ogni giorno usciva di casa all’alba per poter assistere alla messa prima di andare a lavoro nei campi, e che ogni sera, seppur stanco e affaticato, non mancava mai di stringere tra le dita il rosario e unirsi al resto della famiglia per recitare tutti assieme la preghiera dei piccoli.
L’incontro che tuttavia segnò in maniera decisiva il bambino fu quello con don Olinto Marzocchini, arrivato a San Valentino nel 1934, quando Rolando aveva soltanto tre anni. Il bimbo era incantato da quel sacerdote che passava lunghe ore in preghiera davanti al Santissimo, e dalla cura meticolosa che questi dedicava al catechismo dei fanciulli, all’istruzione dei chierichetti e al coro parrocchiale creato ex novo per dare solennità alla liturgia. Durante le celebrazioni Rolando lo seguiva attentissimo, senza perdere neppure un gesto; diceva che al momento dell’elevazione don Olinto gli sembrava tanto grande da toccare il cielo. Fu proprio guardando quel prete che nel piccolo aumentò giorno dopo giorno la curiosità e l’affetto per il Signore: ben presto iniziò a servir messa e ad accompagnare il coro con l’harmonium; esortava i suoi compagni di giochi a seguirlo nelle visite al Santissimo («vieni, Gesù ci aspetta. Gesù lo vuole!», diceva loro); al catechismo era il più preparato e anche a scuola, quando si parlava di storia sacra, incalzava la maestra: «Ci parli ancora di Gesù…». Nel Natale del 1937, i Rivi videro il piccolo Rolando fermo di fronte al presepio, mentre posava davanti al bambinello un sacchettino: «Questi sono i miei peccati – disse –, sono cento, li ho contati. Ma ti prometto, o buon Gesù, che un altr’anno ti porterò un sacchetto di virtù».
L’anno seguente Rolando venne ammesso in anticipo alla prima comunione. L’attesa del bambino era febbrile, e in ginocchio davanti al tabernacolo lo si sentiva ripetere sempre più spesso: «Vieni, Gesù, vieni anche da me». Il 16 giugno 1938, festa del Corpus Domini, ricevette la prima comunione: «Adesso sarò buono, – annunciò ai familiari – come voi desiderate, come Gesù vuole». Il cambiamento fu evidente a tutti: pur rimanendo vivacissimo, si era fatto più ubbidiente, trascorreva molto tempo vicino a don Olinto, che gli mostrava quotidianamente com’era bello vivere «in grazia di Dio», e sempre più spesso si raccoglieva in preghiera. Quelli erano gli anni in cui in Italia e nel mondo spiravano minacciosi i venti di una nuova guerra: Rolando pregava moltissimo il rosario, anche in obbedienza al santo Padre Pio XII, che aveva chiesto specialmente ai bambini di pregare affinché si venisse risparmiati dal flagello di un nuovo conflitto.
In casa si fece pensoso, ma non soltanto a motivo dei pericoli imminenti: era sempre più forte in lui il desiderio di donarsi interamente a Gesù. Lo confidò al suo parroco e poi ai genitori: «Ho deciso: voglio farmi prete». Era l’autunno del 1942 quando finalmente il ragazzo venne ammesso al seminario di Marola: la vita per il “pretino” (così lo chiamavano tutti in paese) ora si divideva tra lo studio, la preghiera e i giochi. Indossò da subito la talare, quella veste che non avrebbe più tolto, neanche nelle partite di calcio o nei giochi spericolati sulla neve. Era «il giocatore di pallone, il campione della camerata», racconta uno dei compagni di seminario, ma «in ginocchio, ai piedi del tabernacolo, sembrava diventato un altro. Era il ragazzo migliore. Non aveva malizia, un puro di cuore. Un vero agnello».
La permanenza al seminario si interruppe due anni dopo, ossia quando nel 1944 i nazisti occuparono l’edificio e tutti gli alunni furono costretti a far ritorno nelle loro case. Rolando, seppur triste, non si perse d’animo; faceva coraggio ai suoi compagni («preghiamo ogni giorno, così non dimenticheremo quanto ci hanno insegnato i nostri superiori») e specialmente alla nonna, che temeva di non vedere suo nipote arrivare all’altare: «Oh, si nonna! – la rassicurava allargando le labbra in un gran sorriso – Canterò la messa a San Valentino… Lo pensi che bello?».
Il ragazzo, tuttavia, sapeva perfettamente quali erano le difficoltà che i sacerdoti stavano vivendo in quegli anni. Molti preti erano finiti nel mirino di soldati nazisti e partigiani comunisti: numerosi sacerdoti vennero uccisi; don Olinto, aggredito e umiliato da un gruppo di partigiani, era stato costretto a lasciare il paese e anche Rolando, benché soltanto seminarista, era stato più volte oggetto di pubbliche derisioni. Indossare la talare era diventato pericoloso, lo sapevano gli amici di seminario e lo sapevano i genitori del ragazzino, che spesso, preoccupati, supplicavano il figlio di toglierla: «Ma perché? Che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela. Io amo Gesù e ho la passione di servirlo nel sacerdozio. Io per Lui sono nel mondo, ma non del mondo».
Si era vicini alla Pasqua del 1945 e il Venerdì Santo coloro che si trovavano accanto al piccolo Rivi lo videro baciare il crocifisso e dire: «Tutta la mia vita per Te, o Gesù, per amarti e farti amare». Giorni dopo, il mattino del 10 aprile, al ritorno dalla Messa, Rolando si recò come al solito in un boschetto vicino casa, per studiare. Quando a mezzogiorno i genitori non lo videro tornare, preoccupati corsero al bosco, ma sul posto non trovano nessuno, soltanto i libri sparpagliati a terra e un biglietto: «Non cercatelo, viene un momento con noi partigiani».
Il piccolo Rivi venne condotto in un bosco presso Piane di Monchio da alcuni partigiani del Battaglione Frittelli; lì restò per tre giorni prigioniero, in una porcilaia. Spogliato della talare, falsamente accusato di essere una spia al soldo dei nazisti e picchiato a sangue, Rolando continuava a pregare: «Sono un ragazzo, sì, un seminarista… e non ho fatto nulla di male». Qualcuno si commosse, propose di lasciarlo andare, incontrando però la netta opposizione degli altri: «Domani un prete di meno». Dopo tre giorni di torture e sevizie, contravvenendo a quelle che erano le regole interne della brigata partigiana secondo le quali le sorti di ogni prigioniero dovevano essere obbligatoriamente decise da un processo, gli aguzzini fecero inginocchiare il giovinetto davanti ad una fossa: «Voglio pregare per la mia mamma e il mio papà», disse loro il ragazzo, avendo ormai compreso tutto. E forse, come santo Stefano secoli prima, pregò anche per i suoi uccisori.
Lo freddarono con due colpi di rivoltella, uno al cuore e uno alla fronte; della talare, una volta arrotolata, fecero dapprima un pallone da calciare e poi un trofeo, esposto di fronte alla chiesa del paese. Era il 13 aprile 1945: Rolando aveva soltanto quattordici anni.
Il padre ritrovò suo figlio tre giorni dopo, mal sepolto da poche palate di terra e foglie secche. Quando lo prese tra le braccia era ancora tutto sporco di terra e sangue. Di quell’omicidio, venne subito informato il vescovo della diocesi, Mons. Brettoni, che allettato e ormai prossimo alla morte, scoppiò in un pianto inconsolabile: «Adesso mi ammazzano anche i seminaristi», esclamò tra i singhiozzi. Prima di Rolando, infatti, erano già stati uccisi nella zona circa una decina di sacerdoti. La notizia giunse anche a Roma, a Pio XII, i cui occhi, al racconto dell’accaduto, si coprirono di lacrime. Undici anni dopo, il 28 ottobre 1956, nel messaggio via radio ai fedeli emiliani raccolti a Modena per la consacrazione della regione al Sacro Cuore di Gesù, Papa Pacelli fece pubblicamente memoria di quel martirio e di tutti gli altri: «In nessuna regione, forse, come la vostra, – disse con viva commozione – si è fatto strage di sacerdoti e persino l’infanzia ha visto insidiata la sua innocenza».
«Vivi nella luce e nella pace di Cristo, tu che dalle tenebre e dall’odio fosti spento»: furono queste le parole che papà Roberto volle far scolpire sulla lapide del suo piccolo. Quello stesso ragazzo che il prossimo 5 ottobre verrà proclamato beato per aver testimoniato con il sangue ciò che in vita aveva sempre affermato, con la parola e ancor più con il cuore: «Quanto ho di più caro al mondo è Cristo: Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui!».