Impressioni dal Paradiso terrestre
Nel 1946 il grande fotografo W. Eugene Smith, convalescente per essere rimasto ferito al fronte, per la prima volta dopo due anni riprende in mano la macchina fotografica per scattare quella che resterà non solo la sua foto più celebre, ma una delle più belle di tutti i tempi. Nello splendido volume edito da Contrasto, Eugene Smith – più reale della realtà, che ho avuto il piacere e l’onore di tradurre insieme a Maria Baiocchi, è lo stesso fotografo a raccontare la storia e le emozioni che l’hanno portato a quello scatto straordinario. Ve ne propongo alcuni stralci (per gentile concessione dell’editore e della mia collega).
A Walk to Paradise Garden
C’era stata la Guerra mondiale. Ora sembra così lontana quella Guerra chiamata Mondo, volume II. Fu durante la mia tredicesima invasione del Pacifico che uno shrapnel mise fine al mio fotoreportage dal fronte. Seguirono due anni tormentati dal dolore delle ferite multiple, anni durante i quali dovetti reprimere l’impulso creativo e dovetti costringermi all’impassibilità, lo spirito inquieto in uno stato di sospensione, mentre i dottori con tutte le loro operazioni cercavano lentamente di ripararmi. E ora, proprio quel giorno, dovevo cercare di cancellare due anni di negazione: doveva essere il mio primo giorno di sforzo costruttivo. Oggi avrei cercato di far lavorare la mia macchina per me e di far funzionare il mio corpo tanto da dominare i congegni della macchina. E poi avrei imposto al mio spirito creativo di abbandonare l’esilio di quella lunga inerzia.
A un tratto qualcosa mi s’impose risolutamente: questa prima fotografia non poteva andare male. Se solo fossi riuscito a infilare il rullino in macchina! Con quella prima foto ero deciso a ottenere qualcosa di più di un mero risultato tecnico. Deciso a farle raccontare un momento delicato, vivo e puro, in contrasto con la ferocia selvaggia contro cui mi ero scontrato nelle mie foto di guerra, le mie ultime foto. Ero quasi disperato nella mia determinazione, nella decisione ossessiva che questa prima foto dovesse avere una qualità speciale. E non ho mai capito perché sia stato proprio così, perché dovesse essere proprio la prima e non la seconda; perché proprio quel giorno e non magari la settimana dopo; ma fatto sta che quel giorno mi sfidai a farla, vincendo la tensione, vincendo la ragione.
Era un giorno di primavera, tarda primavera, e faceva caldo anche se non troppo, nell’aria una melodia leggera. Notai solo che era un giorno abbastanza caldo da lenire il dolore nel mio corpo appena convalescente, un giorno che non avrebbe aggiunto un brivido freddo al crescendo che mi sentivo salire dentro. In qualche modo, senza rivelare i miei progetti, riuscii a tenere i piccoli, Pat e Juanita, a casa con me mentre spingevo madre, moglie e figlia grande, Marissa, a uscire. Tenni con me solo i piccoli perché ero convinto che non avrebbero capito il dramma che si stava svolgendo dentro di me. Me la dovevo sbrigare da solo, o quasi, perché non mi piace avere addosso occhi compassionevoli.
La fotografia era il mezzo che avevo scelto per comunicare, creare, lottare, un mezzo che amavo, per il quale nutrivo una devozione. Se mi avessero tolto la fotografia o se la mia menomazione mi avesse ridotto a risultati inferiori a quelli cui ero abituato, be’ se fosse successa una cosa del genere non avrei potuto… be’, senza voler fare paragoni fra i due talenti e tenendo a mente che in un artista mediocre può ardere una fiamma intensa come quella che consuma uno geniale, si capirà che anche il vago pericolo di perdere la fotografia mi produceva una sofferenza paragonabile alla tortura che dev’essere stata la minaccia della sordità per Beethoven. L’artista senza il suo mezzo di comunicazione è un animo perso.
Tirata fuori da un angolo dello scaffale nello sgabuzzino la macchina fotografica.
…
Camminavamo vicini, io e i miei bambini. Ma eravamo in due mondi diversi: loro esultanti, alla scoperta di un nuovo mondo mentre io cercavo disperatamente di riconquistare le forze del mio passato. Camminando provai a mettere a fuoco con la mano sinistra tutta storta, e feci tutti i gesti tranne lo scatto vero e proprio.
Eppure, malgrado il conflitto che mi dilaniava, non avevo cambiato idea.
La fede, l’energia, la macchina e un po’ di pellicola: le fragili armi delle mie buone intenzioni. Con quelle ho combattuto la mia guerra. La mia macchina e le mie intenzioni non hanno impedito a nessuno di morire, e neppure hanno aiutato qualche ferito. Eppure tutto quello che ho potuto offrire di un qualche valore, qualunque sia il suo valore per il mondo, sono state le mie fotografie.
Io non ho potuto impedire le ferite di un uomo ma magari la vista della sua sofferenza può aver suscitato compassione anche negli animi più induriti. E aver indirizzato l’odio non contro gli uomini ma contro il male che si può fare loro. Se fossi stato capace di fotografare con abbastanza forza, chissà – mi dissi – forse sarei riuscito a cambiare un poco tutto questo. Se fossi riuscito a toccare il cuore di chi le guardava, a fargli rimanere in un nodo alla gola l’enormità, la terribilità della guerra, forse sarei riuscito a dare uno scossone alle coscienze e a far riflettere.
E mentre seguivo i miei figli che attraversavano il sottobosco verso gli alberi più alti – ebbri della meravigliosa gioia della scoperta che trovavano ovunque – li guardai e mi resi conto ancora una volta che malgrado tutto, malgrado la guerra e le sconfitte, malgrado le battute d’arresto, capii che quel giorno, in quel momento, volevo innalzare un canto alla vita e all’importanza di continuare a viverla. Dal fondo della mia disperazione e del mio dolore dovevo trovare la forza di dimostrare, anche a me stesso, che potevo comunque esprimere la fede nel futuro. Non con la realizzazione di una foto costruita con effetti di gioco e di simbolismo, come in un sorriso falso, ma grazie alla comprensione e all’interpretazione di un momento nato dall’onesta, gioiosa eccitazione di vivere che provavano i miei figli.
Quello era un giorno buono per tentarci. Una bella giornata calda di primavera, adatta ad accogliere lo sforzo di uno che voleva risollevarsi. I miei figli sgambettavano da tutte le parti. Li lasciai andare dove volevano, cercando di non farmi seminare, cercando di seguirli senza disturbare le loro idee e le loro azioni – come se non fossi stato lì. Si avvicinarono a una radura con gli alberi che formavano una specie di arco e divenni acutamente consapevole delle linee che disegnavano la scena e della vivida pioggia di luce che si rovesciava dall’alto spandendosi sul sentiero fino a noi. Pat vide qualcosa nella radura; afferrò la mano di Juanita e corsero avanti insieme. Indietreggiai un po’ rispetto ai bambini così assorti, poi mi fermai. Lottai dolorante e quasi in preda al panico con le ingiustizie meccaniche della macchina fotografica…
Immaginai la composizione della scena, soffrendo… cercai di ignorare, e ci riuscii, le fitte violente e improvvise che lo sforzo mi scatenava continuamente nella mano, su per il braccio e fino alla schiena… inghiottendo, succhiando, tra i conati, cercando di mandar giù quel fiele, in bocca e giù per la gola per impedirgli di sgocciolare sulla macchina, dove rischiava di oscurare la luminosità dell’immagine… preparando, testando, controllando l’imminente incontro dei vari fattori concorrenti… sfiorando con una tensione crescente il sensibile pulsante dell’otturatore, cercando di battere sul tempo le mie reazioni rallentate… e non appena i bambini entrarono nel quadro a completare la composizione immaginata, premetti il pulsante per fissare l’immagine di quell’istante – per conservare sulla pellicola la visione di quella minuscola frazione di tempo, fluttuante nell’eternità. La riproduzione stampabile di un’impresa della mente.
Circa un anno dopo tornai a lavorare quasi a tempo pieno. Dovevano passare molti mesi, e ancora diversi anni, prima che cominciassi a rendermi conto che la fotografia – che avevo chiamato “A Walk to a Paradise Garden” titolo tratto da un’opera di Delius – che quella fotografia significava tanto per molte persone in tutto il mondo.
Croton-on-Hudson, New York, 1954
(Brani tratti da “Eugene Smith. Più reale della realtà”, ed. Contrasto, 2011. Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini)