30 Aprile 2014

Di Papi e santi

Di Papi e santi
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Facendo un’eccezione a quanto avevamo stabilito, abbiamo deciso di trattare della canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. Per simpatia verso l’autore dell’articolo e perché dice cose interessanti, pubblichiamo un ampio stralcio di un commento di Lorenzo Biondi apparso su Europaquotidiano del 29 aprile. Al quale aggiungiamo, causa distorsioni sul tema, una precisazione: nel canonizzare un Papa, la Chiesa, come per altri santi, dichiara che quella persona, stante le prove fornite dai miracoli, è sicuramente in Paradiso e la indica al popolo cristiano come modello di vita cristiana e intercessore presso il Signore. Nel caso specifico, non si tratta di dichiarare “santi” dei Pontificati, né quello di Giovanni XXIII né quello di Giovanni Paolo II, ma il cristiano che il Signore ha chiamato al Soglio di Pietro. Un Pontificato, infatti, si snoda in periodi storici e attraverso scelte non necessariamente felici, anche se a compierle è un santo. Basta osservare le canonizzazioni dei Papi recenti: san Giovanni XXIII fu vicino all’ambito modernista, che subì diverse restrizioni nel corso del Pontificato di san Pio X.

In attesa della canonizzazione anche di Paolo VI (che sembra vicina) e di Giovanni Paolo I (e magari di altri Papi), quel che è successo domenica non rappresenta altro che questo: il popolo cristiano  è certo che ha due santi in più in Paradiso. Cosa che, tra l’altro, conta molto di più delle analisi storiche sui rispettivi Pontificati.

E ora un ampio stralcio dell’articolo di Biondi:

 

Il giorno che Jorge Mario Bergoglio è diventato papa il processo di canonizzazione di Karol Wojtyla era già ampiamente avviato. Quasi nessuno dubitava che Giovanni Paolo II sarebbe arrivato sugli altari a meno di dieci anni dalla sua morte. Eppure papa Francesco non si è limitato ad approvare quanto preparato da altri. Ha impresso il suo sigillo sulla cerimonia di domenica scorsa, indicando una precisa chiave di lettura per quanto stava accadendo in piazza san Pietro e nella Chiesa.

Già il 30 settembre scorso, con la scelta di “accoppiare” la canonizzazione di Wojtyla e quella di Giovanni XXIII, Bergoglio aveva dato un segnale: il «curato di campagna» Roncalli – come lo ha definito lo stesso papa argentino parlando ai giornalisti, durante il volo di ritorno dal Brasile – accanto alla figura imponente di Giovanni Paolo II. Non si celebra l’uomo – questo il messaggio di papa Francesco – ma la fede.

E poi l’omelia sul sagrato di san Pietro, durante la messa per la canonizzazione. La lettura che Bergoglio ha dato del Concilio Vaticano II – convocato da Roncalli – aiuta anche a capire il senso delle due canonizzazioni e dello stesso pontificato di Francesco. Il Concilio non ha voluto inventare niente di nuovo, aggiungere dottrine nuove alla Tradizione bimillenaria della Chiesa. Piuttosto è voluto tornare «all’essenziale del Vangelo», restituire la Chiesa alla sua «fisionomia originaria». Non si è trattato di aggiungere qualcosa di nuovo, o di stravolgere; semmai di rimuovere il superfluo per tornare a guardare all’«essenziale». Detto da un papa “progressista” come Bergoglio, non è cosa di poco conto.

Quando poi papa Francesco ha definito Wojtyla «il papa della famiglia», si è alzato qualche sopracciglio. Ma come? Neanche un accenno alla caduta del Muro, alla lotta senza quartiere contro il comunismo, al pontificato “imperiale” e ai viaggi da record intorno al mondo? Non è una definizione in qualche modo “riduttiva”, quella di «papa della famiglia»? (Ne scrive, su Europa di oggi, Pierluigi Castagnetti). Anche qui, Bergoglio guarda all’«essenziale». Tra i tanti gesti compiuti da Giovanni Paolo II, è come se Francesco ne avesse indicato uno in particolare, destinato a lasciare il segno per la fede dei cristiani: l’aggiunta (datata 1995) dell’invocazione «Regina della famiglia» tra le litanie del Rosario. Per la fede della Chiesa – suggerisce Bergoglio – conta più una preghiera semplice di tante azioni eclatanti.

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