Per la Quaresima
Tempo di lettura: 13 minutiNegli ultimi canti abbiamo ascoltato gli accenni al dolore della Madonna, quando tra le sue braccia ha ricevuto il corpo esamine di Gesù: il suo dolce figlio, il suo figlio così bello, morto tra le sue braccia. E tutto era iniziato a Nazareth trenta anni prima, tutto era iniziato con il suo «Eccomi!».
Il gesto di questa sera vuole essere un aiuto a vivere la Settimana Santa, iniziando da questo momento, in questa basilica così bella e così cara. Io vorrei soltanto suggerire quei cenni di conforto che hanno accompagnato ultimamente la mia vita e che hanno reso più semplice, più facile volere bene al Signore.
Quello che vorrei dire in fondo è racchiuso in una frase di sant’Agostino che mi accompagna e che mi ha confortato. Agostino si domanda come è possibile godere della felicità che è Dio, avendo conosciuto che la felicità del suo cuore era l’unità con il Creatore. Ma come è possibile godere qui ed ora di questa felicità? Agostino dice che questo non gli è stato possibile «finché, umile, non ho abbracciato il mio Dio, l’umile Gesù».
Questo è il cuore della vita cristiana: questo abbraccio tra due umiltà, tra «l’umile mio Dio Gesù» e il mio povero cuore. La felicità sulla terra inizia con questo abbraccio, quando il mio cuore povero, umile, mendicante – come dice Giussani nella breve frase che abbiamo messo nell’invito di questa sera – abbraccia «l’umile mio Dio Gesù».
Il mio povero cuore innanzitutto è domanda di essere amato; prima ancora che domanda di verità è domanda di essere amato. Non si può neanche veramente riconoscere la verità se non in un abbraccio, se non nell’essere amato. Bene, quando questo mio povero cuore abbraccia l’umile mio Dio Gesù, questo rende tutto semplice.
Siamo qui in questa basilica dove sono conservate le reliquie di sant’Antonio: in fondo alla chiesa c’è la statua di Antonio con Gesù bambino in braccio. Per una grazia particolare a lui è stato dato un anticipo di paradiso, ma quello che a lui è stato dato come anticipo in pienezza di paradiso, quell’abbraccio per cui il popolo cristiano lo venera con Gesù Bambino in braccio, quell’abbraccio, almeno inizialmente, come iniziale sorpresa, come iniziale stupore è dato anche a noi.
In questa iniziale dolcezza, in questa iniziale corrispondenza tra la sua umiltà, tra l’umile mio Dio Gesù e il mio cuore è la vita cristiana. Questo rende tutto semplice, – come dice Giussani in una frase che mi è così cara: «un’adorata semplificazione di tutto». Di tutto! perché la vita cristiana è questo incontro, è questo abbraccio, è l’incontro tra un cuore che mendica di essere amato e un umile Signore che si abbassa ad abbracciare questo cuore.
E così vorrei suggerire, proprio solo come accenno, che l’iniziativa di questo abbraccio è sua, non è nostra. Questa è la nostra fortuna: l’iniziativa è sua. Se l’iniziativa di un abbraccio fosse nostra, saremmo perduti. «Se non fosse venuto, sarei disperato», in questa frase di sant’Agostino c’è tutto. «Se non fosse venuto, sarei disperato»: se non avesse preso lui l’iniziativa di questo abbraccio, il cuore dell’uomo al massimo sarebbe come due braccia tese verso il vuoto.
E alla fine poi non si rimane con le braccia tese: se lui non prende l’iniziativa di questo abbraccio – come ha preso lui l’iniziativa – ci si accontenta, ci si rassegna o ci si dispera. Com’era bello il Vangelo di oggi, quando questa mattina l’ho riletto nella Messa. «Ora uno dei discepoli, quello a cui Gesù voleva più bene, si trovava a tavola a fianco di Gesù. E Simon Pietro gli fece un cenno e disse: Dì, chi è colui a cui si riferisce?».
Perché Gesù aveva detto «Uno di voi mi tradirà». E allora Simon Pietro dice a Giovanni, il discepolo a cui Gesù voleva più bene: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». Prosegue il Vangelo: «Ed egli, reclinandosi così sul petto di Gesù…». Questa è la felicità sulla terra: «reclinandosi così sul petto di Gesù». È venuto, si è fatto carne nel ventre di Maria, è stato da lei partorito, è vissuto sulla terra perché fosse possibile qui sulla terra un gesto così, fosse possibile a ciascuno di noi il gesto di Giovanni, il reclinarsi così sul petto di Gesù.
L’iniziativa è sua. Quando Giovanni ha posto il suo capo sul petto di Gesù, forse gli è venuto in mente la prima volta in cui la sua iniziativa lo aveva incontrato. Fu quando, come tante volte ha ricordato, anzi ci ha fatto rivivere ricordando Giussani, alle parole di Giovanni Battista, lui e Andrea si misero a seguirlo sul pendio di quella collina, quando Gesù si è voltato e li ha guardati e ha domandato «Che cosa cercate?».
Aveva iniziato lui: se non si fosse voltato, se non li avesse guardati, se non avesse domandato «Che cosa cercate?» e se, nella semplicità del loro cuore, Giovanni ed Andrea non avessero risposto con un’altra domanda… Non hanno risposto con un altro discorso. Nelle cose importanti della vita non si fanno discorsi.
Le cose importanti della vita si riconducono tutte alle parole più semplici, come il sorriso del bambino o come la prima volta che dice «papà» o «mamma». Non hanno fatto un discorso su cosa cercavano, hanno ridomandato: «Dove abiti? Dove rimani?». Dove quello sguardo rimaneva, dove quell’abbraccio era possibile, dove quell’iniziativa non diventava un ricordo del passato, dove l’iniziativa rimaneva possibile, possibile in ogni istante della vita? «Dove rimani?» «Venite a vedere». Andarono e rimasero.
Siccome lui rimaneva, siccome la sua iniziativa rimaneva, allora potevano rimanere anche loro. Siccome li abbracciava lui, allora potevano abbracciare anche loro. «E rimasero con lui tutto il pomeriggio. Erano le quattro del pomeriggio». Così, quando appoggiò il capo sul suo petto, forse alla memoria di Giovanni sono ritornati quel guardare la prima volta Gesù parlare, quella casa sulla riva del Giordano.
E comunque sempre, in quei tre anni, aveva preso lui l’iniziativa. Così fu, ed è una delle immagini del Vangelo che mi è più cara, con il giovane ricco. Dopo che il giovane ricco gli aveva voluto bene, Gesù volle bene a quel ragazzo, che nell’impeto del suo cuore buono, nell’impeto della sua dedizione buona, gli aveva chiesto come ottenere la vita, come ottenere la perfezione.
E quando il giovane ricco non accettò uno sguardo così, un abbraccio così, tutta la sua dedizione non è diventata la dolcezza di un abbraccio: perché si può dire no anche a una dolcezza come questa. E allora quando il giovane ricco triste – triste come l’infelix del canto di prima su Giuda – si allontana, Gesù dice che è più facile a un cammello entrare nella cruna di un ago che non per un ricco entrare nel regno dei cieli.
Allora i discepoli domandano: «Ma se è così, chi può salvarsi?» E Gesù guardandoli – guardandoli! – dice: «All’uomo ciò è impossibile, a Dio tutto è possibile». Se Giovanni era lì, se Giacomo era lì, se Pietro era lì, se quelli lo seguivano, voleva dire che a Dio era possibile. Lui, il Figlio di Dio, Dio da Dio, Luce da Luce, come uomo, guardandoli, da questa esperienza imparava che a Dio tutto è possibile. Guardando quei poveretti che gli volevano bene, lui imparava come uomo.
Dalla sua esperienza di uomo imparava quello che come Dio da sempre era, imparava che a Dio tutto è possibile. E così quella sera, guardandoli, ha ripetuto la cosa più evidente che c’è e la cosa che conforta di più: sembra che non possa confortare ed invece è il conforto più grande. Guardandoli, quella sera del Giovedì Santo ha ripetuto: «Voi senza di me non potete far niente».
È il conforto più grande che Gesù dà, guardando quei poveretti che gli volevano bene. Alcuni giorni prima Tommaso aveva detto: «Andiamo con lui a morire». E quella sera stessa nella sua presunzione da bambino, una presunzione buona, Pietro gli dirà, perché gli voleva bene: «Anche se tutti ti tradiscono, io non ti tradirò».
Ebbene, guardando quei poveretti che gli volevano bene, disse: «Voi senza di me non potete far niente». Pietro dopo alcune ore, quella notte, si è accorto per esperienza che senza di lui, senza la sua presenza, senza la sua vicinanza, senza il suo sguardo, senza che lui l’abbracciasse, non ha potuto far niente.
Anzi, ha potuto tradirlo, ha potuto fare quello che senza di lui possiamo fare: senza di lui possiamo essere poveri peccatori. E così a questa iniziativa che sempre previene, che sempre precede, corrisponde la nostra iniziativa. La nostra iniziativa è un lasciarsi voler bene, la nostra iniziativa è la domanda che ci voglia bene: questa è la libertà dell’uomo.
La libertà dell’uomo è la domanda di questo abbraccio, la domanda di essere voluto bene così. La libertà dell’uomo è la domanda, la mendicanza di essere amati così, di essere guardati così. La libertà dell’uomo, l’iniziativa dell’uomo è tutta in questa domanda, in questa mendicanza che Gesù ci voglia bene, in questa mendicanza di predilezione, di essere voluti bene.
Il secondo cenno riguarda quella parola, o meglio quel fatto descritto da una parola, che è il peccato. L’uomo può dire no. L’uomo all’inizio, con Adamo ed Eva, ha detto no. Da quel peccato che ha ferito il nostro cuore e la nostra natura, che ha ferito, come dice il dogma della fede, tutti gli aspetti della nostra natura, sono scaturiti anche i nostri poveri peccati.
Vi è stato distribuito questo piccolo libro [Chi prega si salva ndr.], così lo chiama Ratzinger nella prefazione, che dice – vi leggo questa frase perché è stato uno dei momenti in cui la paternità e quindi la maternità dell’autorità della Chiesa più mi è stata vicina – «A questo piccolo libro auguro che possa diventare un compagno di viaggio per molti cristiani».
Ebbene questo piccolo libro dice che cos’è il peccato. «Si dice mortale». È a pag. 20, «perché dà morte all’anima con il far perdere la grazia santificante». La grazia santificante è quell’attrattiva (grazia vuol dire attrattiva, delectatio) è l’attrattiva Gesù, è quell’abbraccio, l’abbraccio dell’umile mio Dio Gesù: «Gesù, se così posso dire, mio». La grazia santificante è questa amicizia, è questa corrispondenza.
«Il peccato si dice mortale perché dà morte all’anima con il far perdere la grazia santificante»: senza questo abbraccio, senza questa attrattiva l’anima è morta. La grazia santificante è la vita, «la vita dell’anima come l’anima è la vita del corpo». Continua il Catechismo: «Quali danni fa all’anima il peccato mortale? 1. Il peccato mortale priva l’anima della grazia», cioè «dell’amicizia di Dio; 2. le fa perdere il paradiso», la priva dell’inizio della felicità sulla terra e le fa perdere la felicità per sempre; «3. la priva dei meriti acquistati», cioè la priva di tutta la memoria, la memoria di quello sguardo, di quell’abbraccio, di quelle opere buone.
Quando la libertà abbracciata, il cuore abbracciato è contento, allora è buono. Quell’abbraccio rende veramente buoni. Il peccato priva l’anima di tutta questa bontà «e la rende incapace di acquistare nuovi meriti», la rende incapace di essere buona: il cuore è incapace di essere buono. Come quarto punto il catechismo prosegue dicendo che il peccato mortale fa l’anima «schiava del demonio; 5. le fa meritare l’inferno, ed anche i castighi di questa vita».
È morto per noi peccatori. Dev’essere una cosa tremenda il peccato, il peccato di Adamo ed Eva e i nostri poveri peccati: poveri, perché siamo poveretti. I nostri poveri peccati devono essere comunque una cosa tremenda, una cosa grande se il Figlio di Dio ha assunto la nostra mortalità, la nostra umanità, per morire per noi peccatori, per ridonarci la vita. Se i nostri peccati hanno meritato la morte del Signore, allora dev’essere una cosa terribile il peccato, anche i nostri poveri peccati: «Morì per i nostri peccati».
Così, vedete, il peccato è quando, tentati, non si domanda. Questa è la radice del peccato: quando, tentati dal diavolo, dai desideri cattivi, non si domanda. Quando non si domanda lì, in quell’istante, uno ha già commesso peccato. Così si inizia a peccare, quando, tentati dal diavolo, non si domanda, non si dice (come ha ricordato qualche mercoledì fa il Papa parlando proprio della tentazione e ripetendo il brano di Barsanufio di Gaza, un antico monaco della Palestina): «Gesù, vieni! Gesù, aiutami!».
Così come quella notte del Giovedì Santo, quando lui ai suoi tre amici prediletti diceva: «Vigilate e pregate». Vigilate: a me viene in mente questo termine. “Vigilate” credo voglia dire una cosa semplice: evitate le occasioni prossime di peccato. Vigilare di fatto vuol dire questo, vuol dire evitare le occasioni prossime di peccato, perché quando uno non evita le occasioni prossime di peccato vuol dire che non domanda, vuol dire che forse ha già deciso di peccare.
«Vigilate e pregate»: vigilate e domandate, domandate aiuto. E così, il peccato è quando, tentati dall’impazienza, invece di domandare si pretende. O quando, e questo è il peccato più grave, il primo peccato contro lo Spirito Santo, si è tentati dalla disperazione. Sabato pomeriggio durante la Messa ho letto le letture della Passione di Marco e le ultime parole di Gesù sulla croce mi hanno colpito ancora una volta: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Mi è venuta in mente una delle frasi di Gesù più belle, che più confortano, quando Gesù nel Vangelo di Giovanni dice: «Il Figlio senza il Padre non può fare niente», il Figlio da sé non può fare niente. Gesù sulla croce, Gesù quando ha detto: «Mio Dio, Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», Gesù nella sua umanità ha fatto esperienza che l’uomo non si può dare la speranza, neppure la speranza che è l’inizio della vita. Il Figlio da sé non può fare niente.
Gesù ha fatto umanamente esperienza di questo, che la speranza la dona il Padre, che la speranza non ce la possiamo dare; anche l’iniziale desiderio non ce lo possiamo dare. «Mio Dio, Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
«Imparò l’ubbidienza», dice la lettera agli Ebrei, cioè imparò ad essere figlio. Nella sua umanità «imparò l’obbedienza da ciò che patì», imparò sulla croce che non si poteva dare neppure la speranza, che la speranza gliela poteva dare il Padre, come un bambino piccolo. Come è bella l’immagine di santa Teresa di Gesù bambino quando, parlando del Figlio sulla croce, dice che anche sulla croce è rimasto il bambino piccolo del Padre, anzi sulla croce ha imparato fino in fondo, nella sua umanità, che lui da sé non poteva fare niente, che anche la speranza in quel momento gliela poteva donare solo il Padre.
E così passo all’ultima cosa che volevo dire. Al peccato, ai nostri poveri peccati mortali che fanno perdere la vita all’anima, che rendono morto il cuore, che fanno perdere quell’abbraccio che è la vita all’anima, ai nostri poveri peccati mortali non rispondiamo noi. Il peccato rende schiavi del peccato. I nostri peccati, lasciati a noi stessi, conducono solo a dei vizi: il vizio è la ripetizione abituale del peccato.
Non rispondiamo noi, come Pietro quando lo ha tradito se Gesù non l’avesse guardato: «E Gesù guardò Pietro e Pietro scoppiò in lacrime». I nostri peccati ci lascerebbero nell’inferno, nell’inferno da meritare e anche nell’inferno già sulla terra, se il Signore non guardasse, se non riprendesse lui l’iniziativa di riguardarci. Come diceva il vangelo di Marco: «E Pietro si ricordò di quello che gli aveva detto Gesù». Pietro si ricordò com’era infinitamente più bello quello sguardo, com’era infinitamente più bella quella parola, com’era infinitamente più bella la presenza di Gesù, com’era infinitamente più dolce quella presenza, com’era imparagonabile quell’abbraccio, l’abbraccio di quello sguardo, di quella dolcezza, l’abbraccio di quelle parole.
Lo stesso avviene quando Gesù gli ha detto: «Prima che il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Non lo voleva condannare! Si è accorto di quanta misericordia quelle parole contenevano. Quella misericordia era più bella del suo tradimento. Così, come il figliol prodigo, si è ricordato che quella casa era più bella del suo fuggire, che quella casa era più bella dello sperperare i soldi con le prostitute, che quella casa era più cara dei suoi poveri peccati.
Si ritorna al Signore per l’iniziativa del Signore, si ritorna al Signore dall’inferno dei nostri peccati perché quello sguardo è più attraente, perché la memoria di quella dolcezza è prevalente, prevale sulle attrattive del diavolo, sulle attrattive dei desideri cattivi, perché prevale la sua grazia.
E allora, e così concludo, vi voglio ridire quello che è stata per me la scoperta del giorno di Tutti i Santi, quando sono andato a leggere il vangelo delle Beatitudini. Dopo aver letto quel vangelo, è stata una scoperta semplice, un suggerimento buono, un’ispirazione buona: ci sono, le ispirazioni buone, e sono buone quando coincidono con la dottrina della fede.
L’ispirazione buona era questa: se ci si confessa bene, si diventa santi. È stato chiarissimo: se ci si confessa bene si diventa santi. Non c’è altra strada. Se ci si confessa bene così come il Signore ha stabilito, così come santa madre Chiesa ha determinato, si diventa santi. Se ci si confessa bene così come la Chiesa dice, con sincerità, dicendo sinceramente tutti i peccati mortali con l’umiltà del poveretto che mendica, si diventa santi.
Per questo ho suggerito di distribuire questo libretto, perché questo libretto con la prefazione del cardinale Ratzinger dice come ci si confessa, secondo le indicazioni più semplici del Catechismo di san Pio X. Se ci si confessa bene, se si ha questa umiltà, si diventa santi.
Confessarsi è il modo più semplice per mendicare. Basta dire: «Ho fatto questo, ho fatto questo, ho fatto questo », senza fare discorsi, tanto è vero che una delle cinque caratteristiche per confessarsi bene è la brevità. Se ci si confessa bene, se si domanda così di essere voluti bene, di essere amati, questo abbraccio si avvicina.
Ripetendo nella confessione questa domanda, questo abbraccio diventa più caro, questo sguardo diventa più caro, come quando Gesù guardò Pietro «e Pietro scoppiò in lacrime». E Gesù non gli ha mai voluto bene come quando l’ha visto piangere; perché anche il Figlio di Dio cresceva nella sua umanità, lo dice il Vangelo che cresceva in sapienza e grazia.
Cresceva anche il Figlio di Dio e così non gli ha mai voluto tanto bene come quando lo ha visto piangere. Allo stesso modo, se ci si confessa bene, ripetendo umilmente ciò che abbaiamo compiuto e chiedendo umilmente perdono al Signore e al sacerdote che opera soltanto in persona Christi, cioè è soltanto strumento, voce e gesto del Signore, se ci si confessa bene si diventa santi.
La santità credo si possa riassumere nel versetto del salmo che dice «Io sono povero e solo, ma di me ha cura il Signore». Quando passano gli anni, avvicinandosi umanamente alla morte di cui si ha paura come il Figlio di Dio nella sua umanità ha avuto paura, e avvicinandosi per grazia al Paradiso di cui si comincia a desiderare di vedere il volto (perché Gesù Cristo, il frutto benedetto del tuo seno, è il Paradiso, come diciamo nell’Ave Maria e nella Salve Regina), si capisce di più questo versetto del salmo 39, che dice: «Io sono povero e solo».
Povero, mendicante, e solo. In un piccolo libro di Giussani, il libretto rosso di Gs, Giussani dice che “solitudine” vuol dire solo questo: quando uno si accorge che la felicità non se la può dare lui. L’uomo è povero e solo: la felicità uno non se la può dare, come non si può dare la speranza. Ebbene: «Io sono povero e solo, di me», povero e solo, «ha cura il Signore». Di me ha cura il Signore.
Questo è l’abbandono del bambino. Io sono povero e solo, non mi posso dare la felicità, non mi posso dare neppure la speranza della felicità, che della felicità è l’inizio, non mi posso dare neppure la domanda della felicità, che della felicità è già l’inizio. «Io sono povero e solo, di me ha cura il Signore», di me il Signore ha cura come del suo bambino piccolo.
Questa cura del Signore magari la vedono solo gli angeli, l’angelo custode e gli angeli del Paradiso, ma il cuore cristiano domanda che la storia, il mondo vedano che di me ha cura il Signore. Ieri dicendo le lodi mi ha colpito il versetto del Salmo 41 che dice: «Mentre dicono a me tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?».
Questa è la scommessa del cristiano, per usare l’ultima parola pubblica di Giussani pronunciata la sera di Natale dell’anno scorso, due mesi prima della sua morte. Questa è la scommessa: «Mentre gli altri dicono tutto il giorno: dov’è il tuo Dio?». La scommessa è che questa cura del Signore si renda evidente, manifesta anche agli altri, anche ai cattivi che dicono «Dov’è il tuo Dio?».
Così che tutto il mondo riconosca che di me, dei suoi eletti, dei suoi piccoli, per grazia di Dio e per fortuna nostra, ha cura il Signore. Come dice il Martirio di sant’Agnese: «Il Signore non abbandona i suoi».