Una guida turistica per la guerra siriana
Tempo di lettura: 5 minutiLa conferenza di Ginevra 2, che ha il compito di trovare vie di pace per la Siria, stenta a decollare (è di oggi la notizia di uno slittamento della data di inizio), con Obama costretto sulla difensiva dalla vicenda Datagate, i vari spezzoni delle forze anti-Assad che dichiarano la loro indisponibilità a dialogare con la controparte e tanti altri fattori ostativi. E la guerra continua a imperversare in Siria.
Samaan Daoud, siriano cattolico, era guida turistica un tempo. Oggi, con la guerra, di turisti se ne vedono pochi per le vie di Damasco una, delle quali universalmente nota per la conversione di san Paolo. Da quando è iniziato il conflitto Samaan vive come tutti i suoi connazionali, sospeso ad accadimenti più grandi di lui. Ma non rinuncia alla speranza: per questo partecipa a un movimento che intende creare luoghi di riconciliazione, associando cristiani e musulmani. «Il tentativo è quello di rilanciare un dialogo dal basso, creare ambiti nei quali persone di idee diverse possono dialogare, nonostante le divergenze politiche e religiose». Idea semplice, che nell’inferno in cui è precipitata la sua terra è rivoluzionaria.
Samaan è in Italia, per cercare di portare la sua testimonianza su quanto sta avvenendo nel suo Paese. Per dare, nel suo piccolo, un contributo alla pace. Sa che serve a poco, che i giochi si fanno altrove, ma lo sente come un dovere: verso i suoi compatrioti e verso il mondo che guarda quel conflitto lontano con gli occhiali della propaganda occidentale.
Non è un estimatore del regime, Samaan. Ha i limiti propri di un sistema mono-partitico, spiega. Che, per sua natura, deprime le forze vive della società. Anche sul piano economico non è stato incisivo, dal momento che non è riuscito a favorire una seria programmazione di sviluppo, come accadeva con il padre di Assad del quale però ricorda la durezza. Ma rammenta con orgoglio quando, prima che il conflitto iniziasse, la terra dava grano e il cotone veniva prodotto in abbondanza.
Insomma, Samaan non è un fan di Assad e rifugge la propaganda: quella occidentale, ma anche quella del regime. «Quando in televisione ci sono i comunicati ufficiali cambio canale», confida.
Data la premessa, quello che racconta ha ancora più valore. Di questo conflitto parla alle Tv e alle radio, in questo tour italiano, ne parla a noi davanti a un caffè. Questa rivoluzione è nata sull’onda della Primavera araba, dice, dopo l’ascesa al potere dei Fratelli musulmani in Egitto. Un’onda lunga che aveva nella Turchia il punto di riferimento e in Erdogan, vicino ai Fratelli musulmani, uno dei più autorevoli strateghi.
«Anche da noi c’era malcontento – ricorda -, da qui le rivolte di piazza, alle quali, occorre dire, Assad ha dato delle risposte rapide, raddoppiando i salari e perseguendo la corruzione interna». Una sorta di «tangentopoli» in salsa damascena, spiega usando un termine alquanto noto in Italia.
Questo all’inizio, aggiunge, ma poi tutto è cambiato. Racconta delle manifestazioni di piazza pilotate. Di soldi cash distribuiti ai manifestanti. C’era anche un tariffario, spiega: in città erano mille lire per manifestante, in campagna cinquecento; soldi che un normale cittadino siriano deve sudare, e tanto, per guadagnarli. Venivano distribuiti da imam, e lui dice di aver visto con i suoi occhi il pagamento.
«Che ci fosse qualcosa di strano lo abbiamo capito subito. Al Jazeera martellava sulle manifestazioni di piazza, con filmati che riprendevano folle di manifestanti in varie località del Paese. Ma noi non ci accorgevamo di nulla. Guardavamo le immagini e non capivamo dove le avessero prese: fossero state vere, quelle proteste di piazza, ne avremmo avuto almeno un eco, ma niente». E racconta con ironia che le manifestazioni avvenivano ogni venerdì, giorno festivo dei musulmani, con una ripetitività seriale, televisiva.
Un giorno l’ha pure vista da vicino una di queste manifestazioni: mentre portava il figlio alle prove del coro in chiesa (piazza Al Abassyin), vede un gruppo di gente raggruppata vicino all’edificio di culto: alcuni di loro tenevano in mano un rotolo di fibre di vetro, racconta, quelle usate per la vetroresina; poi un agitarsi di uomini, il rotolo incendiato a simulare scontri di piazza e subito gli scatti di telefonini e telecamere: la fiction da mandare in Tv era pronta. «In tutto è avvenuto in una manciata di secondi, poi sono spariti tutti», racconta; pochi secondi, quanto basta per una foto opportunity o un corto per You Tube o Al Jazeera, ambiti nei quali si vincono e si perdono le guerre moderne. «Anche le inquadrature di queste manifestazioni erano studiate con cura, così da far immaginare folle oceaniche dove invece era un manipolo di esagitati».
Tutte cose che fanno insospettire i siriani, che a poco a poco hanno preso coscienza che qualcosa di grosso stava accadendo. Poi sono arrivate le milizie armate e tutto è precipitato nell’abisso. Accenna soltanto agli orrori che si susseguono con ripetitività ferale; cose che appartengono al quotidiano e che le Tv occidentali rimandano con dovizia di particolari. Non ci soffermeremo su questo, ché tanto ormai basta un computer per sprofondare nella costernazione.
All’inizio era il Qatar a finanziare i cosiddetti ribelli, poi, dopo la caduta dell’emiro, è la volta dell’Arabia Saudita. Principi e re legati ad Assad da antica consuetudine, ma pronti a denunciare ora le sue nefandezze, vere e presunte. Adesso, a complicare le cose, anche la guerra tra bande: milizie filo saudite che combattono quelle legate al Qatar, con queste ultime ad avere la peggio. E le altre lotte intestine che si scatenano ogni giorno tra bande diverse e che avviluppano il Paese in una spirale di caos.
Ma parla anche dell’esperienza minuta, Samaan, quella che sfugge al circolo mediatico: di come ormai nelle zone occupate dalle forze anti-Assad il greggio si compra a prezzi d’accatto, ché nessuno degli improvvisati conquistatori conosce il prezzo al barile e svende a due lire. Un modo come un altro per alimentare la macchina bellica, lucrando sulla tragedia altrui.
Ma la cosa più interessante, dal punto di vista dell’originalità, la racconta alla fine, quando parla di intere fabbriche smantellate e portate in Turchia. Una di queste era di un suo amico ad Aleppo: gli era arrivata una lettera che chiedeva soldi in cambio di protezione. Metodi mafiosi, come si usa in questa temperie da tempo. L’imprenditore rifiuta: non ha i soldi richiesti né intende pagare. Poi in città arrivano le milizie islamiche e deve scappare. Evidentemente il mittente della missiva sapeva bene quel che si preparava in quella zona. Seguono le alterne vicende della guerra, infine la fabbrica è riconquistata dalle truppe di Damasco. Il suo amico torna alla fabbrica lasciata in fretta e furia. E trova il deserto. Avevano portato via tutto, anche macchinari grandi come case. «C’erano delle telecamere», racconta Samaan, «che evidentemente sono sfuggite agli occhi dei ladri e che hanno ripreso quanto accaduto. Ho visto i filmati e sono rimasto di sasso: in una notte hanno portato via tutto, con gru e camion: un’intera squadra al lavoro, ben organizzata, che svitava bulloni, agganciava cavi, smantellava pezzo a pezzo quella che un tempo era una delle più importanti fabbriche della città».
Gli orrori, quelli che abitano gli occhi di Samaan, sono sotto gli occhi di tutti. Questa spoliazione sistematica di una terra che un tempo era una delle più ricche del Medio Oriente è solo un ulteriore tassello.
Il caffè è finito ed è il momento dei saluti. Samaan deve continuare il suo tour italiano, nonostante qualcuno, amici, gli accennino di segnali minacciosi nei suoi confronti. Sbuffa, alza le spalle, come di cosa scontata: «Se deve essere, sarà», e allude alla morte. E sorride, con un sorriso che tocca il cuore e che appartiene a una sorta di grazia di stato, quella di vivere in un luogo in cui la testimonianza del martirio – la più grande testimonianza cristiana – è quotidiano accadere. Presto il suo viaggio italiano avrà termine e deve tornare nella sua terra. Dove le minacce hanno volti più definiti. Il terrore appartiene alle guerre moderne, dove non solo serve uccidere, ma anche spargere paura all’intorno. Ci sono specialisti che studiano queste cose. E non abitano solo in Medio Oriente.
Con la sua visita italiana, Samaan ha dato testimonianza di speranza: indice che nonostante il terrore vinca ogni giorno le sue battaglie quotidiane, non ha ancora trionfato.