Accordo Biden-Trump. Anticipati i dibattiti elettorali
Trump e Biden hanno concordato di anticipare i consueti duelli televisivi tra i candidati alla Casa Bianca. La proposta di anticipare i tempi e dare un’altra modulazione al consueto format – non più gestito dalla Commissione per i dibattiti presidenziali ma concordati con le Tv Usa – è stata avanzata pubblicamente da Biden e Trump ha prontamente accettato, dal momento che le rispettive squadre si erano già messe d’accordo in via riservata, come scrive il New York Times. Il primo match si terrà il 27 giugno, il secondo il 10 settembre. Due soli round e non i consueti tre, come da proposta del team Biden.
Evitare di esporre il senile Biden
Per il team Biden si trattava di “mitigare i rischi insiti nel mandare sul palco un presidente di 81 anni in diretta per 90 minuti. Accettando due dibattiti invece dei tradizionali tre, il team Biden ne vuole limitare la visibilità. Programmando gli scontri più lontano dal giorno delle elezioni, entrambi i candidati avranno l’opportunità di riprendersi qualora dovessero inciampare” (in senso letterale, per quanto riguarda Biden).
Interessante il motivo della proposta: “Decine di milioni di dollari in pubblicità non hanno cambiato il deficit di consensi del presidente Biden. Il processo penale di Donald J. Trump non ha modificato la traiettoria della corsa. E i significativi vantaggi in termini di denaro e mezzi di Biden devono ancora dare dividendi politici”.
Insomma, è “un riconoscimento pubblico del fatto che è in svantaggio nella corsa per la rielezione e una scommessa sul fatto che una sequenza temporale accelerata del dibattito costringerà gli elettori a sintonizzarsi di nuovo sulla politica e ad affrontare la possibilità del ritorno di Trump, per godere di una nuova spinta”.
La squadra di Biden, infatti, non punta sul proprio candidato, ma sulla demonizzazione dell’avversario e spera di cancellare il deficit facendo rivivere i fasti del duello Trump – Biden, che lo vide vittorioso.
Secondo il Nyt, Trump avrebbe accettato perché convinto di poter stracciare l’avversario, come da dichiarazioni baldanzose. Non aggiunge, però, l’altra motivazione, forse più importante, del placet. Ad oggi gran parte della sua campagna è concentrata sulle sue vicende giudiziarie, il dibattito gli dà la possibilità di parlare all’America di altro.
Zakaria e il processo politico di Trump
Quanto alle inchieste che lo perseguitano, si registrano i grandi successi del Tycoon, che è riuscito a rinviare a dopo le elezioni due procedimenti, quello sulle asserite interferenze elettorali in Georgia e sull’indebito prelevamento di documenti riservati, ma resta quello sulle false dichiarazioni delle spese elettorali, nel quale è accusato di aver fatto passare per spese elettorali i soldi dati alla pornostar Stomy Daniels in cambio del suo silenzio su una scappatella.
Processo alquanto risibile, il cui scopo è offuscarne l’immagine, come ha evidenziato la testimonianza della pornostar, che non si è limitata a riferire se era stata pagata o meno, dilungandosi sui particolari dell’incontro intimo – che Trump nega – del tutto estranei al processo.
L’artificiosità del procedimento è stata sottolineata da una fonte del tutto inattesa, Fareed Zakaria, giornalista non certo trumpiano e che al tempo della presidenza Obama era accreditato come uno dei dieci uomini più influenti del mondo.
Nel corso del suo programma domenicale, questi ha affermato: “Dubito che il processo di New York si sarebbe tenuto contro un imputato che non fosse Donald Trump”, aggiungendo che è solo un modo per “costringerlo a stare sotto i riflettori” e per “far infuriare la sua base”. E, ciliegina sulla torta, ha concluso che, a suo parere, gli inquirenti sono “motivati politicamente”. Non un processo penale, ma politico, dunque. Cosa ovvia, ma che la dica Zakaria ha certa rilevanza.
Una politicizzazione che ha avuto un picco nell’ordinanza che ha imposto all’imputato il silenzio assoluto sugli interna corporis del processo. Trump si è azzittito, ma hanno iniziato a parlare altri per lui.
Il processo al populista
Difficile prevedere gli esiti del dibattimento. A livello politico non sta spostando ed è probabile che ciò resterà immutato anche in caso di condanna. Né gli impedirà di correre per la Casa Bianca, dal momento che potrebbe farlo anche dal carcere.
Lo spiegava un articolo del Washington post che, a corollario di una dettagliata analisi giuridica, ricordava un precedente, quando nel 1920 Eugene V. Debs, leader del partito socialista d’America, corse per la presidenza ottenendo “circa 900.000 voti, circa il 3%” del totale.
Resta che un’eventuale restrizione carceraria, oltre a togliere tempo e spazio alla campagna elettorale, potrebbe riservare sorprese. La denuncia di Trump, di esser stato incriminato più di Al Capone, può avere doppia lettura, dal momento che il gangster fu ucciso in cella. Non una nostra considerazione, ma l’allarme lanciato dalla trumpiana Marjorie Taylor Greene (Newsweek).
Detto questo, è più che probabile che l’accordo Biden-Trump sia stato a più ampio raggio e tale da evitare colpi eccessivamente bassi. Via dunque al duello, che i democratici cercheranno di raccontare ancora una volta come uno scontro tra democrazia e populismo, parola, quest’ultima, sinonimo di male assoluto.
Una connotazione negativa alquanto recente, almeno negli Usa: nel 2016 Obama disse di essere lui il “vero populista” e non Trump (Politico), evidentemente ascrivendo a tale termine un’accezione positiva.