20 Marzo 2020

Aldo Moro non fu rapito in via Fani

Aldo Moro non fu rapito in via Fani
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Il 16 marzo ricorreva l’anniversario del rapimento di Aldo Moro, avvenuto in via Fani secondo la narrativa ufficiale, la cui fallacia è sempre più evidente.

In una nota pregressa spiegavamo che Aldo Moro in realtà non si trovava in via Fani. Il suo “prelevamento”, come lo definisce nei suoi scritti dal carcere brigatista, avvenne prima e altrove, mentre la sua scorta, ingannata insieme allo statista, veniva inviata in giro  (magari si era stabilito che riprendesse sotto la sua tutela Moro altrove). E macellata in via Fani per creare la narrativa ufficiale.

Rimandiamo alla pregressa nota, in cui spiegavamo i motivi della nostra conclusione (Piccolenote), confortata, nel recente anniversario del rapimento, dal generale Piero Laporta, che in parte riprende nostre considerazioni, in parte aggiunge (vedi Stilum Curiae).

C’è ancora chi sa fare e farsi domande. Tanti i misteri di quei giorni, ma i media si sono interpellati, e persi, in questioni secondarie, come ad esempio l’ubicazione vera della prigione di Moro.

Particolare secondario. Nessuno, o quasi, si è mai domandato se davvero Moro fosse in via Fani. E pochi si sono posti l’altra questione capitale, se cioè Moro era stato in realtà liberato e ucciso per un successivo, imprevisto, ripensamento dei carnefici.

Ne accenna il direttore di Op Carmine Pecorelli (vedi Piccolenote). secondo il quale qualcuno aveva “giocato al rialzo, una cifra inaccettabile” . Da qui l’assassinio in macchina, a un passo dalla libertà.

Il prezzo da pagare

Ma, se liberato, quale prezzo era stato pagato per la sua liberazione? Si può intuire dall’ultima lettera che Moro scrive dalla prigione, collazionata poi come fosse parte del memoriale (e che per questo chiameremo in tal modo).

In questo brano anomalo del memoriale (di lunghezza sproporzionata rispetto agli altri), dopo una lunghissima digressione politica cambia repentinamente stile e, dopo un’intemerata contro i suoi colleghi e amici della Dc, conclude:

“… desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di ciò sono profondamente grato. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto e le riflessioni che ho riassunto più sopra, non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della D.C.”.

“Rinuncio a tutte le cariche, escludo qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla D.C., chiedo al Presidente della Camera di trasferirmi dal gruppo della D.C. al gruppo misto. Per parte mia non ho commenti da fare e mi riprometto di non farne neppure in risposta a quelli altrui“.

Moro era il candidato naturale alla presidenza della Repubblica: sarebbe stato eletto con i voti di Dc e Pci uniti nel compromesso storico che del quale lo statista era simbolo. Nella lettera suddetta, come si vede, Moro abdica a tutte le cariche, anche “future”. E questo è il primo prezzo da pagare.

In secondo luogo, Moro, e presumibilmente i suoi colleghi della Dc, avevano accettato il dettato dei rapitori, cioè la fine del compromesso storico, ormai non più sostenibile, dato che, come scrive Pecorelli nell’articolo “Yalta in via Fani”, era prevalsa la logica dei blocchi contrapposti (Usa-Urss).

Da qui anche il simbolo del compromesso storico che diventa fiero oppositore del suo partito. Questo il senso della feroce critica di Moro ai suoi amici e colleghi.

Moro e Carmine Pecorelli

Soccorre, sul punto, l’analisi di Pecorelli, che sottolinea la discrasia tra quanto Moro scrive dal carcere e la sua storia personale.

“Qual è il vero Moro? Il Moro numero 1 elevato da Zaccagnini nelle feste dell’amicizia a simbolo della Dc che apre al partito comunista? O il Moro numero 2 elevato dalle brigate rosse a pubblico ministero del sistema democristiano in Italia?” (Op del 24.10.78, titolo: “Moro 1 o Moro 2? La dc è divisa”).

Discrasia ripresa in altro articolo: “In generale si può dire che il memoriale rappresenta la requisitoria di un Moro diventato, a nome e per conto delle brigate rosse, il pubblico ministero di un anomalo processo alla democrazia cristiana. Un processo che, a differenza del Processo pasoliniano, non rispetta i diritti dell’imputato né prevede un collegio di difensori, neppure d’ufficio (Op 24.10.78. titolo “Il memoriale questo è falso – questo è vero”).

Nello stesso articolo, Pecorelli scrive: sembra che “Moro, più che fare rivelazioni, ne abbia in realtà ricevute e tali che egli nel momento stesso in cui le apprese, pur avendo capito chiaramente che non vi erano molte speranze per lui, finse o in gran parte recitò, e strumentalizzò quella disperazione pur umanamente autentica, e quel possibilismo risolutorio che nella sua condotta risultava attendibile, per compiere l’ultimo suo disegno ‘generale’ a beneficio della comunità politica di cui era capo e alla cui validità di assunto, al sopra delle pecche e dei limiti individuali, credeva fermamente”.

Moro dunque finse, o più plausibilmente tale cedimento era l’accordo trovato – e concordato con la Dc – con i suoi carcerieri per riavere la libertà. Come scriverà Pecorelli successivamente: «Moro sembra convito che le sue ammissioni-confessioni gli possano servire per la libertà» (Op del 31.10.78, titolo “Contraddizioni e nuovi interrogativi”).

Insomma, il prezzo da pagare per la libertà di Moro era la fine del compromesso storico e della carriera politica dell’uomo che ne era il simbolo.

Da qui la scarcerazione dello statista. Ma qualcuno dei suoi carcerieri non è stato ai patti. Voleva di più, un prezzo che la Dc non poteva pagare, come scrive Pecorelli. E Moro fu ucciso.

 

Ps. Il generale Piero Laporta ha pubblicato altro, e un po’ più confuso, successivamente. Rimandiamo, chi voglia leggere anche tale aggiunta, a Stilum Curiae.