In morte di un ambasciatore (2)
Tempo di lettura: 4 minutiIn merito all’assalto al convoglio che è costato la vita dell’ambasciatore Luca Attanasio, nella Repubblica democratica del Congo, sono pervenuti dettagli nuovi rispetto alle prime ricostruzioni.
Il diplomatico e il carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, non sarebbero stati uccisi deliberatamente dai loro assalitori dopo esser stati sequestrati, ma sarebbero periti in uno scontro a fuoco tra questi e un gruppo di armati sopraggiunti sul posto.
Il convoglio, in missione per conto del Programma alimentare mondiale, è stato bloccato da sei assalitori, che hanno intimato ai passeggeri di seguirli, freddando sul posto l’autista che si era rifiutato di scendere.
Poco dopo sono sopraggiunti soldati congolesi e rangers del parco nazionale Vinunga, attirati dagli spari, che hanno ingaggiato uno scontro a fuoco con i rapitori. E, nello scontro, sono morti i due, mentre gli altri rapiti sono riusciti a fuggire.
Questa la ricostruzione ufficiale, che sarà approfondita dagli inquirenti, emersa dalle testimonianze dei sopravvissuti e dall’autopsia dei corpi, che ha verificato come le pallottole che hanno ucciso il diplomatico e il carabiniere siano state sparate non da presso.
Riguardo alla nota pregressa, scritta in base alle prime ricostruzioni, andrebbe quindi corretta l’idea di un omicidio premeditato: sembrerebbe un incidente mortale, nato nel caos della guerra infinita che tormenta l’area a causa delle sue enormi ricchezze.
Resta però qualche domanda: non è stato ancora definito se i colpi siano stati esplosi dagli assalitori o dai soccorritori.
Le notizie su una perizia balistica che avrebbe concluso che le armi che hanno sparato i proiettili assassini erano in uso ai rangers appaiono infondate, dato che ci vuol tempo per un’analisi del genere e occorre avere contezza del tipo di armi usate dagli assalitori (a oggi non sembrano esserci notizie al riguardo).
Il particolare non è secondario, perché escluderebbe del tutto un mandato omicidiario degli assalitori, che avrebbe potuto essere escluso anche dal rapimento (se si voleva uccidere, si poteva fare sul posto), ma anche no.
L’attacco, però, resta strano, dato che è vero che la regione è tormentata da conflitti caotici, ma le bande in guerra sanno perfettamente che i bianchi non si toccano, al massimo si può loro rubare (peraltro anche pochi euro contenuti del portafogli, qui è una ricchezza).
Ciò perché non si vuole attirare l’attenzione sui traffici che si intrecciano in loco. L’infrazione di questa regola non scritta, ma ferrea, costa cara ai capi delle varie bande, che quindi stanno attenti a non infrangerla. Al massimo si può predare, ma rapire un bianco non è così usuale come potrebbe sembrare.
Peraltro, rapire non turisti, ma un diplomatico e un milite italiano in missione Onu, è pura follia.
Né si comprende perché gli accorsi hanno dato vita a una sparatoria, dato che era chiaro che c’erano dei rapiti, e rapiti importanti, perché il convoglio era del Pam, con tanto di insegne, come dimostrano filmati e fotografie. I soccorritori non possono non aver visto i mezzi fermi sulla strada, al momento di scendere dai propri e inoltrarsi nella foresta.
Ci appassiona di meno la querelle sulla scorta che non c’era. Secondo padre Franco Bordignon, missionario saveriano da decenni nella Repubblica democratica del Congo e grande amico del diplomatico, quella strada non necessitava più di tanto di scorta, essendo dichiarata sicura dall’Onu, o forse, come ha detto alla Repubblica, più semplicemente, Attanasio non l’ha chiesta perché la riteneva superflua.
Non che il particolare non vada chiarito, ma focalizzare l’attenzione solo su questo, come si sta facendo, rischia di eludere domande più importanti.
La spiegazione più piana, dunque, che è tutto frutto di un tragico incidente. Ad attaccare il convoglio, dato quanto scritto sopra, sarebbe stata una banda di cani sciolti, “disorganizzata”, come ha detto Bordignon, che ben conosce le regole dello sporco gioco che abita la zona, nell’intervista alla Repubblica succitata.
Come “disorganizzati” si sono dimostrati gli improvvidi soccorritori, che hanno dato vita (o accettato) allo scontro armato costato la vita ai due italiani.
Forse è davvero così. Ma mancano dei tasselli. Come, ad esempio, le vittime dello scontro a fuoco. Ad oggi si sa solo che sono morti i due italiani. Possibile che nessun altro sia stato colpito? Particolare ancora non chiarito, che riteniamo importante.
Ci saranno indagini, ma la classificazione dell’accaduto come incidente è destinata a restare tale.
Riferiamo, infine, le parole della moglie, Zakia Seddiki, secondo la quale non c’erano particolari problemi riguardo alla scorta (spostando così il focus da questo elemento secondario, diventato primario), anche se è ovvio che sa perfettamente che in quelle regioni non ci si muove con leggerezza.
Evidentemente sa che il marito non era un facilone. Di interesse soprattutto la convinzione della donna: qualcuno ha “tradito” il marito, lo “ha venduto”. Contrasta un pochino con l’idea di un’operazione ad opera di una banda di cialtroni…
Concludiamo con le parole di padre Bordignon all’Agenzia Dire, in contrasto con la banalizzazione dell’intervista alla Repubblica: “Sarà molto difficile capire qual è stato il vero movente di questo attacco tanto numerosi sono i gruppi armati e gli interessi presenti nella regione“.
Ps. Lo stesso giorno è stato trovato morto, suicida, Pietro Panarello, che lavorava presso l’ambasciata italiana in Etiopia. Come per il suicidio dell’ex garante dell’antitrust, Antonio Catricalà, avvenuto in questi giorni, la morte è stata addebitata a una depressione.