27 Luglio 2024

L'attentato a Trump e l'incontro con Netanyahu

La cappa di silenzio sull'attentato a Trump ha accompagnato il "colpo di stato" contro Biden. Sull'orlo della guerra all'Iran
L'attentato a Trump e l'incontro con Netanyahu
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Trump è stato colpito “da un proiettile o da un frammento di proiettile“. Così il direttore dell’Fbi Christopher Wray. Inutile dire che Trump e i membri del suo partito si sono infuriati per la minimizzazione dell’accaduto da parte della massima autorità investigativa degli Stati Uniti e per la palese sciocchezza della conclusione, peraltro giunta prima ancora di un’indagine quantomeno minimale. Tanto che, ieri, l’Fbi ha dovuto correggere il tiro: era un proiettile (Axios).

Parola d’ordine: Insabbiare

La corsa a minimizzare l’attentato è iniziata da subito, come annotava Jeffrey A. Tucker sul sito del Ron Pual Institute: “Per molte ore, il  New York Times, la CNN,  il Washington Post e altri media mainstream si sono rifiutati di dire che si trattava di un tentativo di assassinio di Trump. I titoli [dei media] hanno portato le persone a credere che si trattasse di un raduno MAGA nel quale alcune persone che si erano lasciate trasportare dall’entusiasmo avevano sparato a caso, così che Trump ha dovuto essere trascinato via”.

“La CNN è stata probabilmente la peggiore, con il seguente  titolo : ‘I servizi segreti trascinano Trump fuori dal palco mentre cade durante un comizio’. Ci sono volute molte ore” prima che i media mainstream finalmente riferissero di un tentativo di assassinio.

Minimizzare, non sollevare domande, non cercare risposte, questi gli ordini di scuderia ai quali si attengono i media mainstream che, dopo i primi due giorni nei quali non potevano non parlarne, hanno relegato i pochissimi, e ridicoli, articoli dedicati all’attentato ai margini della cronaca, nonostante l’enormità dell’accaduto.

Eccezione che conferma la regola, l’editoriale del Washington Post di ieri, nel quale si legge: “La cronologia [di quanto accaduto] rimane poco chiara. Ma è fin troppo chiaro che le forze dell’ordine, tra cui il Secret Service, stavano tenendo d’occhio Crooks molto prima che Trump salisse sul palco. E sembra probabile che Crooks fosse stato segnalato come una minaccia prima ancora che il candidato repubblicano salisse sul palco. Da qui la domanda più inquietante di tutte: perché il Secret Service non ha annullato, o almeno posticipato, il discorso di Trump?”. Già, perché?

Minimizzare, far finta di nulla, anche questa cappa di omertà interpella. E non poco. A ridurre l’eco dell’attentato il bizzarro, unico nel suo genere, blackout globale causato da un improvvido aggiornamento di un programma della Crowdstrike; e, successivamente, dal colpo di stato col quale Biden è stato cacciato dalla corsa alla Casa Bianca per lanciare, al suo posto, Kamala Harris (interessante sul punto, quanto scrive Jack Cashill su Wordnetdaily: “I Clinton e Alex Soros, appena fidanzato con la migliore amica di Hillary, Huma Abedin […] probabilmente sapevano che Biden si sarebbe ritirato dalla corsa […] e hanno annunciato il loro sostegno alla Harris” prima di altri).

L’incontro Trump Netanyahu

Tale insabbiamento non solo renderà difficile, se non impossibile, comprendere quanto accaduto e accertare responsabilità – anche se certe domande hanno risposte alquanto ovvie – ma rende possibile anche un altro attentato a Trump.

Peraltro, dopo che Netanyahu ha denunciato al Congresso (inesistenti) complotti iraniani per assassinare l’ex presidente, ovviamente smentiti dagli interessati, un eventuale omicidio di Trump potrebbe avere conseguenze catastrofiche, dal momento che potrebbe scatenare alzo zero l’America contro Teheran, realizzando finalmente i sogni del premier israeliano, che ha una ultradecennale ossessione a riguardo.

Ieri Trump e Netanyahu si sono incontrati. Nulla per ora è trapelato dell’incontro, si sa solo che, il giorno prima, in un’intervista a Fox News, Trump ha dichiarato che Israele deve porre fine alla guerra a Gaza “e farlo in fretta“, perché sta distruggendo la sua immagine internazionale.

Certo, è commendevole che non abbia motivato la sua dichiarazione lamentando le troppe vittime palestinesi, come hanno fatto Biden e la Harris quando hanno incontrato Netanyahu a loro volta, preferendo invece usare il repertorio normalmente adoperato dagli avversari interni di Netanyahu, ma l’esito dello sprone è lo stesso.

Ci permettiamo di aggiungere che sbaglierebbe chi crede che una presidenza Harris favorirebbe la pace in Medioriente più di una presidenza Trump. L’ex presidente, nonostante le intemerate verbali, ha dimostrato moderazione nel corso del suo mandato, ad esempio evitando di attaccare la Sirial’Iran in momenti cruciali – contrastando le spinte dei falchi del suo partito, che ora tifano per la Harris – sia ordinando il ritiro delle truppe da Iraq, Siria e Afghanistan, anche se non è riuscito nell’intento per pressioni e manovre oppositive.

La Harris, invece, seguirebbe la linea Biden, anzi essendo ancora meno forte del senescente presidente, sarebbe ancora più succube dell’establishment della Sicurezza che ha gestito gli aiuti a Gaza, che il  New York Times enumera così: dal 7 ottobre Israele ha ricevuto “più di 20.000 bombe non guidate, circa 2.600 bombe guidate e 3.000 missili di precisione, oltre ad aerei, munizioni e difese aeree”. Peraltro, si tratta di numeri indicativi, perché come annota il media, molte di queste donazioni “sono classificate  o sono state tenute segrete in altro modo”. Peraltro, il suo legame con i Clinton non promette nulla di buono…

Serve una Yalta mediorientale

Ma un’eventuale presidenza Trump potrebbe favorire la stabilizzazione, sempre relativa, del Medio oriente grazie a un fattore altro e più alto. Se davvero, come vorrebbe, riuscisse a ridurre la conflittualità con la Russia, anzitutto chiudendo la guerra ucraina, potrebbe ripresentarsi per il Medio oriente una situazione analoga a quella dell’era della Guerra Fredda.

Allora, le due potenze globali riuscivano a contenere le spinte destabilizzanti proprie della regione, riuscendo in qualche modo a risolvere le crisi che via via si presentavano in un accordo tra di esse, accordo poi imposto ai vari attori regionali.

Il Medio oriente, infatti, è letteralmente esploso dopo la caduta del Muro di Berlino, a causa della sfrenata aggressività americana e israeliana e delle reazioni conseguenti. Tale la follia che ha nell’attuale guerra di Gaza il suo esito ultimo (almeno ad oggi).

Un conflitto finora irrefrenabile anche perché si sta consumando nel momento in cui più grande è la distanza tra Stati Uniti e Russia e rinnovata la spinta americana di usare di tale crisi per ridisegnare il Medio oriente in base ai propri interessi, riportando i Paesi arabi sunniti sotto il proprio ombrello protettivo tramite gli Accordi di Abraham, strappandoli così alla presa dei Brics.

Una spinta che riecheggia e rinnova, sotto altra forma, il caos creativo evocato da Condoleezza Rice e messo in pratica da George W. Bush, il presidente inadeguato – come inadeguata sarebbe la Harris – che per questo venne gestito con facilità dai neocon.

Nell’analisi abbiamo tenuto fuori la Cina, che pure si è dimostrata attore stabilizzante rispetto al Medio oriente, avendo favorito l’accordo tra Iran e Arabia Saudita – che l’amministrazione Biden vuole incenerire a favore degli Accordi di Abraham, creati dai neocon in chiavi anti-iraniana – e quello più recente tra le varie fazioni palestinesi.

Non un’omissione la nostra, semplice semplificazione: è ovvio che un’eventuale dialogo, aperto o sottotraccia che sia, tra Russia e Usa sulle criticità mediorientali vedrebbe coinvolta, in un modo o nell’altro, anche la Cina, che potrebbe dare un apporto più che significativo.

Non siamo irenici, così da immaginare un futuro roseo e senza cadute o tragici imprevisti. Abbiamo solo accennato a prospettive, peraltro in maniera estremamente sintetica per non annoiare, per far intravedere la relatività di certi schematismi, o più sinceri timori, secondo i quali il mondo crollerebbe con Trump alla Casa Bianca anche a causa di un asserito rapporto quasi di bromance con Netanyahu.

Di ieri, peraltro, l’articolo del Washington Post, pur non condivisibile in tanti passaggi, dal titolo: “Trump e Netanyahu si incontrano tra tensioni politiche e personali”, che nel sottotitolo riporta come l’ex presidente abbia “apertamente criticato la gestione della guerra a Gaza da parte di Netanyahu”.

 

 

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