5 Aprile 2023

L'attentato a Tatarsky: geopolitica e cronaca nera

Fiori deposti sul luogo dell'attentato a Tatarsky. L'attentato a Tatarsky: geopolitica e cronaca nera
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L’assassinio del blogger russo Vladlen Tatarsky è un esempio tipico di intersezione tra cronaca nera e geopolitica. Il blogger è stato ucciso nel giorno in cui i russi prendevano il controllo del municipio di Bakhmut, cosicché l’attentato serviva a due scopi.

Il municipio di Bakhmut

Anzitutto a coprire la notizia della caduta del municipio, di fatto diventata irrilevante dopo l’assassinio. Il punto è che, benché di nessuna importanza tattico-strategica, la conquista del palazzo municipale aveva un alto valore simbolico, come sbandierato dalle forze ucraine che vi si erano acquartierate in segno di vittoriosa resistenza.

Peraltro, come avevamo segnalato in una nota precedente, il New York Times, solo due giorni prima della sua caduta, aveva annunciato che l’offensiva russa su Bakhmut era ormai svaporata. La successiva conquista del Municipio lo smentiva decisamente. Ma tale notizia andava coperta in ogni modo, da cui l’uccisione del blogger, inutile ai fini strategici, quanto eclatante.

L’altra causale dell’attentato, secondaria ma non troppo, è quella di inviare un avvertimento alle autorità moscovite, dimostrando di poter colpire all’interno della Russia a piacimento e in modalità mirata. Non per nulla, subito dopo l’attentato, James Olson, ex capo del controspionaggio della Cia, ha dichiarato che “Putin è un morto che cammina“.

Il combinato disposto assassinio-avvertimento appartiene alla follia del momento. Se davvero riuscissero a uccidere Putin, anche la narrativa più pervasiva non potrebbe convincere i russi dell’estraneità di Washington. La ritorsione sarebbe immediata e catastrofica.

Il curatore

Così andiamo alla cronaca nera, cioè all’omicidio di Tatarsky, perché la dinamica dell’operazione è istruttiva, dal momento che è analoga a quella in uso presso le Agenzie del Terrore.

Ad assassinarlo è stata Darya Trepova, già attivista del movimento di Navalny, l’oppositore di Putin con un indice di gradimento bassissimo in patria ma altissimo in Occidente, attualmente in carcere dopo essere improvvidamente tornato in patria in segno di sfida a Putin che, secondo lui e i suoi sponsor esteri, aveva tentato di avvelenarlo.

Ma l’attivismo pro-Navalny della Trepova appartiene al passato. Più di recente un tale l’ha contattata tramite social media, sondandone la possibilità di farne un’arma. Più che probabile che sapesse già tanto della Trepova, come è probabile che abbia provato a saggiare il terreno anche con altri candidati.

La Trepova abbocca all’amo e la conversazione si sposta sul dark web, dove il curatore la sottopone a prove, sempre più audaci, per saggiarla e aggiogarla.

La Trepova inizia così una manovra di avvicinamento alla vittima. Inizia a inneggiare all’operazione russa nel Donbass sul suo sito, prime dedito all’arte, a seguire gli incontri della vittima e a creare cartoline illustrate in onore dei soldati russi che mostra in giro per accreditarsi.

Cartoline che mostrerà anche a Tatarsky quando si intrattiene con lui a margine di un evento. Tutte le sue mosse sono suggerite dal curatore e a lui deve riferire esiti e dettagli. Riceve pagamenti in criptovalute e promesse per un impiego in Ucraina al termine della missione.

Infine, quando arriva il momento di colpire, il curatore le spiega che deve cambiare alloggio e trasferirsi a San Pietroburgo, in una casa a due passi dal bar nel quale deve portare a termine l’ennesima missione, quella finale, nella quale, nel corso di un incontro, la donna consegna a Tatarsky la statuetta imbottita di esplosivo che lo avrebbe ucciso (ferendo diversi convenuti, vittime collaterali).

Il blogger accoglie il dono e lo ostenta anche al pubblico presente, come si vede nel video dell’esplosione, perché la Trepova era ormai un volto a lui noto e familiare.

Servizi poco segreti

I russi dicono che il curatore della donna appartiene ai servizi segreti ucraini. Questi negano, ma lo fecero anche nel caso dell’omicidio della Dugina venendo poi smentiti dagli americani (che non si ripeteranno: sono ormai troppo ingaggiati nella guerra per negare copertura a Kiev).

Quanto alla Trepova, ha detto agli inquirenti che non sapeva che la statua contenesse esplosivo. Possibile, ma anche no. Poco importante, è solo una pedina sacrificabile, al modo dei kamikaze islamici.

A leggere l’informazione nostrana è arduo discernere tra vittima e carnefice, dal momento che il blogger ucciso è stato dipinto come un orco.

In realtà, benché inquadrato nei ranghi dell’esercito, faceva quel che fanno né più né meno i suoi omologhi ucraini, esaltando enfaticamente il suo Paese e denigrando brutalmente i nemici. Cioè quel che fanno, in modi più soft ed eleganti, il 90% (per tenersi bassi) dei cronisti occidentali che seguono questa guerra.

L’obiettivo prescelto dagli attentatori, non a caso, è un narratore della guerra per parte russa. Così lo era la Dugina, amica peraltro dell’assassinato. La scelta dei bersagli indica ancora una volta come questa guerra abbia un sostrato hollywoodiano, nel quale le narrazioni sono di primaria rilevanza, così che i narratori russi (e non solo) diventano nemici da eliminare. La libertà di stampa in Occidente è diventato un concetto relativo.

Se fatte dai russi, tali azioni sarebbero inquadrate nel novero del Terrore. Dal momento che a compierle sono gli ucraini, hanno altre classificazioni. Questione di prospettiva.

Ci si può chiedere legittimamente se i servizi segreti ucraini abbiano le potenzialità per compiere azioni tanto sofisticate, cosa che appare alquanto improbabile. Come appare improbabile che non rispondano e/o non comunichino con i servizi segreti formalmente alleati, di fatto dominus della scena ucraina. Ogni riferimento a Cia e MI6 è puramente casuale.

Ma al di là delle domande, e delle non risposte, si può annotare, a fine articolo, che due o tre giorni prima dell’omicidio del blogger, i servizi segreti russi arrestavano per spionaggio il cronista del Wall Street Journal Evan Gershkovich. Accuse, come da prassi, respinte dalla controparte.