3 Settembre 2024

L'avanzata russa nel Donbass e la visita di Putin in Mongolia

La Commissione europea aveva chiesto alla Mongolia di arrestare Putin, ma lo zar è stato accolto in pompa magna. E la folle richiesta della UE ha avuto l'esito di conferire alla visita i tratti di un successo geopolitico di rilevanza primaria...
L'avanzata russa nel Donbass e la visita di Putin in Mongolia
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Il parlamento ucraino ha comunicato ieri che la perdita di Pokrovsk non sarà “un disastro”, annuncio che suona di mesta rassegnazione per la prossima caduta della cittadina, punto focale dell’avanzata russa nel Donbass. Ne riferisce Strana che in un altro articolo, spiega con le parole di Oleksandr Kalenkov, presidente di  Ukrmetallurgprom (la società metallurgica nazionale) perché i russi stiano forzando in tale direzione.

Di Donbass, coke e libertà di religione

“Pokrovsk è una città strategicamente importante per la metallurgia ucraina – spiega Kalenkov – è lì che viene estratto il carbone da coke usato dalle imprese [metallurgiche]. Non esiste altra fonte di questa risorsa nel paese”. Certo, il coke può essere sempre importato, ma, come spiega Kalenkov, sia per le difficoltà logistiche che per i volumi, i prezzi sono destinati ad aumentare.

Pertanto, conclude il cronista di Strana, “la minaccia di perdere Pokrovsk è carica di conseguenze per l’economia [ucraina], sia a breve che a lungo termine”. E ora, a quanto pare, tale sviluppo non è più una minaccia, ma una realtà incombente. Peraltro, la zona è ricca di litio, minerale diventato molto ricercato negli ultimi anni; anche se attualmente il litio di Pokrovsk non è sfruttato, può esserlo in futuro. Insomma, se dal punto di vista della tenuta del fronte la perdita di Pokrovsk non sarà decisiva, infliggerà l’ennesimo duro colpo all’Ucraina.

Inutile aggiungere che Kiev intende proseguire a tutti i costi la guerra, continuando a ripetere che riuscirà a piegare la Russia. C’è tanta follia in questa ostinazione, pagata col sangue ucraino (e russo, ovviamente, ma questo è il mandato ricevuto da Kiev dai suoi sponsor internazionali).

Una follia evidenziata anche dall’ostinazione con la quale il governo di Kiev ha perseguitato la Chiesa ortodossa ucraina, legata a Mosca, prima fondando una chiesa ortodossa nazionale collegata al Patriarcato di Costantinopoli (Istanbul), quindi requisendo proprietà e arrestando preti, monaci e suore. Infine, a fine agosto, approvando in sede parlamentare il divieto della stessa.

Una regressione di secoli, quando i potenti si ingerivano nel profondo nelle questioni religiose e che nulla ha a che vedere con la democrazia, della quale l’Ucraina dovrebbe essere baluardo contro l’autoritarismo russo.

La legge era stata portata al parlamento dal partito dell’ex presidente Petro Poroshenko, ma era stata bloccata nel luglio scorso per l’aperta contrarietà dello staff trumpiano (Strana).

Così, in questa vicenda, si è registrata una inusuale convergenza tra il tycoon e papa Francesco, il quale, più recentemente, ha chiesto che “non sia abolita direttamente o indirettamente nessuna Chiesa cristiana” e che si lasci la libertà per cui “ciascuno possa pregare in quella che considera la sua Chiesa”, perché “chi prega veramente prega sempre per tutti“.

La Turchia nei Brics e il viaggio di Putin in Mongolia

Quanto alla Russia, oltre a incassare il riconoscimento quasi unanime degli analisti d’Occidente sull’inutilità – anzi la potenziale (e non solo potenziale) dannosità – dell’invasione ucraina di Kursk, che ha dissanguato ulteriormente le forze di Kiev, inanella altri successi politici, che hanno un peso nel conflitto che la contrappone all’Occidente, sia in Ucraina che altrove.

Il primo e più dirompente è la richiesta ufficiale della Turchia di aderire ai Brics. Se si tiene conto dell’importanza geopolitica del Paese, un ponte naturale tra Oriente e Occidente che insiste sul cruciale Medio oriente, e del fatto che ha uno dei più potenti apparati militari della Nato, non è cosa da poco.

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Il secondo è la visita di Putin in Mongolia, Paese che per economia e collocazione geografica non avrebbe una grande rilevanza geopolitica, ma gliel’ha conferita il pressing con il quale gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno tentato in ogni modo di legarla a filo doppio all’Occidente.

Sforzi che hanno visto in primo piano i neocon, come evidenziato, ad esempio, dalla visita in terra mongola del Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton nell’estate del 2019 e quella dell’aprile del 2023 del Sottosegretario di Stato Victoria Nuland, che così descrisse il suo viaggio: “È stato fantastico tornare in Mongolia e vedere tutti i progressi fatti dal paese, pur rimasto fedele alla sua tradizione e alla sua ricca cultura, da quando abbiamo aperto l’ambasciata degli Stati Uniti a Ulan Bator, nel 1988”.

Per tentare di non perdere questi “progressi”, gli iper-atlantisti hanno tentato in tutti i modi di sabotare la visita di Putin, con l’Ucraina e la Commissione europea che si sono spinte a chiedere a Ulan Bator di eseguire il mandato di arresto emesso contro lo zar dal Tribunale penale internazionale (TPI), dal momento che la Mongolia aderisce a tale organismo (richiesta folle, date le possibili conseguenze…).

Nulla importando di tali pressioni, le autorità di Ulan Bator hanno accolto Putin in pompa magna e le richieste di cui sopra hanno solo ribadito che la Ue non conta nulla, oltre a rendere la visita di Stato di Putin, alquanto secondaria rispetto ad altre, un grande successo geopolitico (non ne azzeccano una…).

Putin Gets a Red-Carpet Welcome in Mongolia Despite Arrest Warrant

Nello specifico, Putin si è recato in Mongolia per finalizzare la realizzazione di un gasdotto che porterà gas russo alla Cina, unendo ancor più i destini delle due potenze. E, attento alla storia, è sbarcato a Ulan Bator nell’anniversario della battaglia di Khalkhin Gol, quando, nel ’39, l’armata rossa e la cavalleria mongola sconfissero i giapponesi che volevano sfondare il confine, chiudendo le ostilità con Tokio e permettendo così a Mosca di concentrarsi sul fronte occidentale.

Il mandato di arresto contro Putin

Per inciso, e per tornare al mandato di arresto del TPI, si può notare che la Russia ha evacuato da Belgorod, città di confine esposta ai diuturni attacchi ucraini, migliaia di bambini (ad oggi circa 40mila).

Una dinamica identica a quella registrata in Donbass, con il trasferimento in zone sicure di migliaia di bambini della regione. L’unica differenza è che i primi sono russi, i secondi ucraini. E proprio su questa differenza si è basato il mandato di arresto contro Putin, che ha avuto il torto di aver messo in salvo i bambini del Donbass e di tentennare nel restituirli a Kiev dato il dilagare della tratta dei fanciulli nel Paese confinante.

“L’Ucraina – si legge, infatti, su un documento dell’Usaid – è un paese di origine, transito e destinazione per la tratta di esseri umani sin dall’inizio degli anni ’90. Uomini, donne e bambini sono trafficati per destinarli al lavoro forzato, all’accattonaggio, allo sfruttamento sessuale e ad altre forme di sfruttamento”.

Non vogliamo ergerci a difensori di Putin, solo esporre perplessità su un mandato di arresto spiccato in tutta fretta e su pressione Usa, a differenza di quello richiesto per Netanyahu, al quale la procura del TPI ha addebitato crimini ben più gravi, chiuso da mesi in un cassetto dei giudici del TPI.

Infine, sembra lecito porsi un’ulteriore domanda sull’arresto improvviso e inatteso di Pavel Durov – figura di spicco russa in quanto fondatore di Telegram – a Parigi; se cioè lo scopo di tale improvvida operazione fosse anche quello di intimidire Putin, prospettandogli un’analoga disavventura in terra mongola. Chissà…