Biden vs Netanyahu e l'incendio che divora Israele
Nuova bordata di Biden all’indirizzo di Netanyahu: in un’intervista al Time, alla domanda se il premier israeliano sia interessato a prolungare la guerra per conservare il potere, ha risposto: ” Ci sono tutte le ragioni per trarre questa conclusione”, smussando poi la frecciata, che comunque non è rimasta inosservata essendo stata rilanciata in tutto il mondo.
La guerra ad ampio spettro di Netanyahu
Nell’intervista ha poi sottolineato la sua distanza dal premier, che si concentrerebbe sul dopoguerra, volendo Biden favorire la nascita di uno Stato palestinese (ritardo colpevole…), un’opzione indigesta al suo interlocutore israeliano.
Al di là del particolare, resta, appunto, la bordata, che arriva in concomitanza con la partenza del capo della Cia William Burns per il Medio oriente volta a favorire la riuscita dell’accordo con Hamas annunciato urbi et orbi da Biden.
Al solito, la distanza tra Hamas e Tel Aviv è sulla durata della tregua e sul destino di Gaza, con i primi vogliono una cessate il fuoco prolungato e il ritiro delle forze israeliane, opzioni sulle quali Netanyahu resta ambiguo, pur se stavolta non ha mandato subito all’aria tutto con un subitaneo niet a un cessate al fuoco duraturo, come ha fatto in precedenza.
Se Biden continua a martellare è ovvio che sa che dall’altra parte lavorano per affondare il suo piano, che è poi un piano “israeliano“. Braccio di ferro duro, dunque.
Diversi media insistono sul fatto che se Netanyahu accettasse l’accordo si priverebbe della maggioranza parlamentare, dal momento che due partiti ultra-ortodossi, guidati da Smotrich e Ben-Gvir lo abbandonerebbero (Ben Gvir ha già lanciato il suo ultimatum contro l’opzione Biden).
In realtà, dopo il placet all’intesa di due partiti ultra-ortodossi, lo Shas e l’United Torah Judaism, Netanyahu ha i numeri per restare in carica, dal momento che il Likud e questi due partiti contano 50 parlamentari, ai quali si devono aggiungere gli 8 di National Unity, il partito di Gantz ed Eisenkot, che già sostiene il governo. Mancherebbero solo 3 voti per la ottenere la maggioranza (la knesset ha 120 parlamentari) e diversi partiti di opposizione sono disponibili allo scopo.
Quindi, il problema è altro dalla tenuta del governo ed è il destino di Netanyau, il quale teme che, una volta cessata l’emergenza bellica, i suoi avversari interni lo infilzino con le inchieste giudiziarie o altro. E da qui non se n’esce, dal momento che ad oggi, almeno pubblicamente, nessuno dei suoi avversari, interni ed esterni, gli ha offerto rassicurazioni personali (certi ambiti non conoscono compromessi).
Così l’emergenza bellica prosegue e da ieri si è arricchita con la possibile guerra contro Hezbollah, opzione presa in considerazione all’inizio delle ostilità di Gaza e poi rimessa nel cassetto quando l’America, dopo aver fatto opera di dissuasione sulla leadership israeliana, ha fatto un gesto eclatante ritirando le portaerei che aveva schierato al largo del Libano e lasciando Tel Aviv col cerino in mano.
L’incendio divampa
L’opzione guerra sul Fronte Nord è tornata di prepotenza ieri con l’incendio che ha divorato diversi ettari di territorio israeliano, causato, dicono, dai razzi lanciati da Hezbollah.
Uno strano caso del destino ha voluto che, nonostante lo scambio di colpi tra le forze israeliane ed Hezbollah sia iniziato oltre sette mesi fa, mai si era dato un incidente di tali proporzioni, tale da non poter restare senza risposta, ad oggi solo verbale, di Israele.
Un’improvvida coincidenza temporale ha voluto che tale incidente avvenisse proprio in questo momento cruciale per la guerra di Gaza, quando più stringente si è fatta la spinta per chiuderla, una conclusione che vedrebbe anche la fine degli scontri al confine libanese dal momento che Hezbollah si è attivato solo in difesa di Gaza (lo dimostra la precedente tregua di Gaza, che si è allargata anche a questo fronte).
Hezbollah ha già dichiarato che non vuole espandere il conflitto con Israele, finora mantenuto a livello di attrito, ma a Tel Aviv hanno iniziato a brandire con più forza l’opzione bellica. Di ieri l’avvertimento pervenuto a Beirut da Londra sull’imminenza di un attacco in forze israeliano, che avverrebbe a metà giugno.
Insomma, nella stretta della possibile pace con Hamas, la guerra rilancia la sua sfida belluina. Ma Hezbollah non è Hamas, ha il potenziale per infliggere danni più che significativi.
Le immagini dei palazzi di Haifa ridotti in macerie, i porti israeliani distrutti, i morti per strada, i corpi degli israeliani insanguinati… tutto ciò solleverebbe una tale ondata di emozione in Occidente che la sua leadership subirebbe una pressione fortissima per prestare soccorso all’alleato mediorientale. Con il rischio che il conflitto si allarghi all’Iran, con conseguenze ancor più terrificanti.
Al momento appare più possibile una risposta limitata di Israele, che non attivi la reazione alzo zero del nemico, ma lo scenario da incubo di cui sopra non è opzione remota, anzi.
Più che probabile che, nella sua missione, Burns debba anche scongiurare tutto questo. Ma la spinta per far precipitare la situazione è fortissima. Non appare affatto un caso che, proprio in questa temperie, il Wall Street Journal abbia messo in dubbio la lucidità mentale di Biden.
La spinta a sostituirlo con un altro candidato, già emersa in passato, sta tornando con prepotenza, proprio nel momento in cui il presidente sta cercando di frenare la carneficina di Gaza (sulla quale ha pure pesanti responsabilità) e un possibile ampliamento del conflitto mediorientale. I falchi bipartisan Usa, e in particolare i neocon, da tempo accarezzano l’idea di una nuova guerra mediorientale.
Non è un caso quindi che allo stesso tempo, come denunciano i trumpiani di ferro Marjorie Taylor Greene e Darren Beattye, si starebbe snodando una spinta parallela per sostituire Trump nella corsa alla Casa Bianca perché non conforme alle prospettive neocon. La scelta sarebbe caduta su Nikki Haley che, dopo la condanna di Trump, si è precipitata in Israele, probabilmente per ricevere la benedizione di Netanyahu. Momento cruciale, Vedremo.