31 Ottobre 2018

Bolsonaro è il nuovo Pinochet?

Bolsonaro è il nuovo Pinochet?
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Jair Bolsonaro, l’uomo nero, è il nuovo presidente del Brasile. E un brivido percorre il mondo, dato che durante la campagna elettorale ha inanellato bestialità verbali tra cui l’elogio della dittatura e della tortura.

Un brivido di nome Pinochet

Il brivido ha un nome e cognome: Augusto Pinochet, che prese il potere in Cile l’11 settembre del ’73, data nefasta per la storia.

Il colpo di Stato di Pinochet, infatti, ebbe una proiezione globale, innescando una svolta autoritaria praticamente in tutti i Paesi dell’America latina e gettando un’ombra sinistra sul liberalismo selvaggio, che attraverso tali mostruosità manifestò tutto il suo lato oscuro, rivelatosi poi in tutto il suo luciferino splendore nella globalizzazione (vedi Piccolenote).

Così la domanda se Bolsonaro sia un nuovo Pinochet interpella l’intera comunità internazionale.

Riportiamo, sul punto, due commenti. Il primo è di Diogo Mainardi, intervistato lunedì sul Corriere della sera.

Secondo lo scrittore italo-brasiliano, che il cronista definisce di destra, Bolsonaro ha vinto grazie alla Mani pulite in salsa carioca, quella che ha praticamente smantellato il Partito dei lavoratori e impedito al suo leader più carismatico, Lula da Silva, di ricandidarsi (avrebbe vinto a mani basse).

Un po’ quel che è successo in Italia, spiega Mainardi, dove Mani pulite ebbe come primo effetto quello di consegnare il nostro Paese a Forza Italia (schematico, ma ci torneremo).

Le preoccupazioni internazionali sul nuovo presidente brasiliano, secondo Mainardi, sono “eccessive”: il suo Paese ha ormai un sistema di “pesi e contrappesi” tale da rendere improbabili avventure autoritarie.

Per George Galloway, eccentrico esponente della sinistra britannica, è improprio parlare di fascismo a proposito di tale elezione, né Bolosnaro è, almeno ad oggi, un “nuovo Pinochet” (Russia Today).

Egli ha vinto perché la sinistra non è riuscita a rapportarsi con il popolo carioca. Evoluzione che in fondo si ripete su scala globale dopo la crisi del socialismo del post ’89.

Bolsonaro e l’isolazionismo Usa

Abbiamo riportato i due commenti perché convergono, da destra e da sinistra. C’è da aggiungere che l’affermazione di Bolsonaro è stata favorita dallo svaporamento della dittatura nella memoria collettiva del Paese.

E che l’apparato militar-industriale, che gli ha consegnato la vittoria, ha ancora rapporti con l’ex Segretario di Stato Usa Henri Kissinger, grande Vecchio dei regimi sudamericani e ancora influente nell’amministrazione Trump, del quale è stato uno dei grandi elettori.

Bolsonaro appare dunque un prodotto del populismo trumpista, pur se più belluino, che, peraltro, propugnando un ritorno all’isolazionismo, vede nel Sud America il giardino di casa di Washington.

Così la vittoria di Bolsonaro proietta una nuova luce nordamericana sull’America latina, che si era staccata da Washington dopo la vittoria su scala continentale delle forze che avevano lottato contro le dittature e per il disinteresse degli Usa verso un continente considerato marginale nell’ambito della prospettiva aperta dalla globalizzazione.

Ora la prospettiva di Washington è altra, ma non per questo necessariamente tragica per il Sud America, dato che i governi post dittatoriali non hanno inciso sulle drammatiche povertà del continente. E che in effetti sembra difficile il ripetersi della stagione dei pronunciamenti militari (ma la vigilanza è d’obbligo).

Da questo punto di vista è significativa l’apertura da Nicolás Maduro, che ha espresso l’auspicio di riavviare le relazioni tra Venezuela e Brasile, fatte decadere dal governo di “sinistra”.

Sembra paradossale dato il bolivarismo di Caracas, ma non è impossibile che il Trump carioca possa seguire le orme dell’originale, aprendo, nei modi e nelle forme possibili, porte finora rimaste sbarrate. Vedremo.

Nota a margine. La vittoria di Bolsonaro apre un nuovo capitolo del conflitto economico sino-americano, dato che Pechino in questi anni ha investito molto in Sud America.