Le bombe sul Libano e l'usuale ambiguità americana
Il Libano meridionale e il Sud di Beirut sono bersaglio di intensi bombardamenti israeliani, che hanno provocato la morte di miliziani e di tanti civili, tra cui donne bambini (su al Manar le foto struggenti dei piccoli uccisi).
In parallelo, Tel Aviv ha lanciato volantini nel Sud del Libano invitando i civili a evacuare, segnale di un’offensiva di terra prossima ventura. Per parte sua, Hezbollah continua a lanciare i suoi missili per lo più contro obiettivi militari, perseverando nella sua guerra a intensità modulare, in reazione cioè alle iniziative di Tel Aviv, sia a Gaza che in Libano.
Come ha affermato il suo leader Nasrallah, la milizia sciita non intende dar vita a una guerra su larga scala, nonostante il cyberattacco tramite i cercapersone esplosivi della scorsa settimana, anche se si è detto pronto a sostenerla.
Lo scrive anche Haaretz: “Hezbollah non cade nella trappola di Israele e ha segnalato che non si allontanerà dalla sua strategia guida nella guerra di Gaza: sostenere Hamas senza sprofondare in una guerra regionale totale che si allargherebbe all’Iran”.
Secondo il ministero della Salute libanese i raid di stamane hanno causato 182 morti e 727 feriti. Numeri che preannunciano un’ecatombe sia di militari che di civili, dato anche il modus operandi delle forze israeliane a Gaza.
Il supporto Usa a Israele
Niente sembra frenare l’escalation che sta trascinando il Medio oriente nell’abisso. Gli unici a poterlo fare sono gli Stati Uniti, ma l’ambiguità con la quale hanno affrontato il genocidio di Gaza, con condanne ed esortazioni verbali alla tregua accompagnate da un sostegno ferreo alle operazioni di Tel Aviv, si sta ripetendo sul fronte libanese.
Un’ambiguità palesata da Axios: “I funzionari statunitensi affermano che l’amministrazione Biden è ‘estremamente preoccupata’ per il rischio di una guerra totale tra Israele e Libano, ma spera di sfruttare la crescente pressione militare israeliana su Hezbollah per ottenere un accordo diplomatico che consenta ai civili di tornare nelle loro case su entrambi i lati del confine tra Israele e Libano” [un po’ come sperare che la pressione militare su Hamas portasse alla liberazione degli ostaggi: errare humanum est, perseverare autem diabolicum… ndr].
“Israele e gli Stati Uniti – continua Axios – stanno cercando di staccare Hezbollah da Hamas. Ma, nonostante mesi di sforzi diplomatici da parte dell’amministrazione Biden, Hezbollah non ha accettato nessun accordo per fermare il conflitto con Israele anche senza un cessate il fuoco a Gaza”.
La Grande Israele e il fiume Litani
Non solo la querelle su Gaza, la diplomazia Usa si è concentrata, scontrandosi con il niet della parte avversa, anche su un’altra richiesta di Israele, quella di far arretrare Hezbollah oltre il fiume Litani, che scorre a decine di chilometri dal confine.
Tale richiesta non nasce solo un’esigenza di sicurezza di Tel Aviv, ma è partecipe della follia messianica che sta dilagando nel Paese, che vede le terre a Sud del Litani come parte della Terra Promessa, da ricomprendere nella Grande Israele.
Ne scriveva Amos Arel su Haaretz in un articolo dal titolo: “‘Libano, parte della Terra Promessa’: la destra messianica di Israele prende di mira un nuovo territorio per gli insediamenti”.
La sinistra israeliana e la guerra contro Hezbollah
Così, senza nessuno che freni, la guerra tanto agognata da Netanyahu si sta realizzando, peraltro con la convergenza della sinistra israeliana, pur avversa al premier. Lo registrano due cronisti di Haaretz che riportano le recenti affermazioni di Yair Lapid sulla necessità di creare una fascia di sicurezza tra Libano e Israele di due chilometri.
“Davvero, Golan? – ammoniscono i cronisti di Haaretz – È questo che stai suggerendo? Invadere il Libano meridionale, occupare il territorio e tornare all’incubo di una ‘zona di sicurezza’ come quella sfortunata realizzata dal 1985 al 2000? In quegli anni, migliaia di cittadini libanesi innocenti sono morti, per non parlare dei soldati e dei civili israeliani”.
Gaza relegata all’oblio
Infine, con la guerra con Hezbollah alle porte, Netanyahu potrebbe ascriversi un altro successo: con i missili che piovono sul territorio israeliano più di prima, con il regime di emergenza varato per l’occasione – scuole chiuse, rifugi sempre aperti, ospedali in allerta – gli ostaggi nelle mani di Hamas saranno derubricati a problema secondario, evitando al premier le furiose contestazioni di cui è stato fatto segno finora.
E, insieme gli ostaggi, finiranno nell’oblio anche le trattative con Hamas, facendo sfumare l’unica reale – almeno al momento – via di uscita da questo tunnel dell’orrore, dal momento che Hezbollah è pronto a chiudere le ostilità in caso di un cessate il fuoco a Gaza.
Quanto a Gaza, di rilievo l’ultima trovata delle autorità israeliane. In questo momento è allo studio l’opzione che vede lo sfollamento forzato del Nord, con ordine perentorio ai civili di recarsi a Sud – dove continuano a piovere bombe – chiudendo la zona settentrionale a tutti gli aiuti e lasciando così a chi vi resterà la scelta tra morire di fame o consegnarsi alle prigioni israeliane (che dopo gli orrori di Sde Teiman e altre crudeltà similari non è un’alternativa di facile scelta). Nel riportare la notizia, Antiwar la definisce “pulizia etnica“. Arduo dargli torto.
Quanto all’opzione “due popoli due Stati”, e per tornare alla tragica ambiguità degli Usa che ufficialmente la brandiscono, si registra che il Congresso ha approvato una legge che prevede di “etichettare i prodotti provenienti dagli insediamenti nella Cisgiordania occupata come ‘Made in Israel'”…