Il Capo di Stato Maggiore Usa nella bufera. Colpa dell'Afghanistan?
Tempo di lettura: 3 minutiDurante la transizione tra Trump e Biden il Capo di Stato Maggiore degli Stati Uniti, Mark Milley, ha contattato due volte il suo omologo cinese per rassicurarlo sul fatto che l’America non avrebbe attaccato la Cina. Questa la rivelazione contenuta nell’ennesimo libro di Bob Woodward.
La notizia ha fatto scandalo negli Usa, perché tale contatto non sembra fosse autorizzato dai superiori, da cui l’accusa di alto tradimento. A suscitare rabbia, in particolare, la seconda telefonata, nella quale Milley assicurava al suo interlocutore che l’avrebbe avvertito in caso di attacco.
Se telefonando…
Biden ha difeso il suo generale, ma il colpo è duro, dato che la sua amministrazione è accusata di essere arrendevole verso i cinesi. Un intrico difficile da sbrogliare, del quale proviamo a mettere in fila alcuni elementi.
Anzitutto la prima considerazione: se il primo contatto può essere tacciato di insubordinazione, difficilmente lo è il secondo, avvenuto mentre l’America era alle prese con l’assalto al Campidoglio. Era ovvio che l’esercito Usa dovesse rassicurare il mondo sul fatto che conservava la lucidità del caso.
Resta, però, appunto, quella rassicurazione sull’avvertenza previa in caso di attacco, che può apparire un tradimento bello e buono. Milley ha dichiarato di voler chiarire tutto, ma non potrà mai dire che temeva qualche colpo di testa da parte di qualche alto graduato.
Ipotesi remota, certo, ma non del tutto. Fu ventilata anche per l’omicidio di Soleimani, il capo dei Guardiani della rivoluzione, del quale Trump si sarebbe assunto la responsabilità, malgrado non ne sapesse nulla, per tanti motivi (anzitutto per evitare di rivelare che il Comandante in Capo non aveva il controllo dell’esercito).
Un’esercitazione troppo realistica
Non abbiamo fatto a caso l’esempio, dato che negli ultimi giorni di Trump la tensione con la Cina era arrivata alle stelle a causa di un’esercitazione militare più realistica di altre tenutasi in California a fine settembre, nella quale gli obiettivi dell’esercito erano stati identificati chiaramente come cinesi e aveva visto un coordinamento molto avanzato tra truppe e droni MQ-9 Reaper, quelli usati per assassinare Soleimani con missili ipersonici.
Tale esercitazione, che si accompagnava all’intensa polemica contro la Cina, aveva suscitato grande allarme a Pechino, come evidenziano vari articoli cinesi riportati su Responsibile Statecraft. Tanto che anche il Segretario alla Difesa Esper si mosse per rassicurare il Dragone.
Un allarme esagerato? Forse sì forse no. La Cina temeva, infatti, come riporta RS, una October suprise nella forma di un’iniziativa militare che la campagna di Trump potesse sfruttare per vincere le elezioni.
Non un’iniziativa di Trump, ché Trump non è stato un guerrafondaio, ma di qualcuno che potesse usare il caos di quei giorni per un colpo di mano.
Tale sorpresa poteva prendere la forma di un attacco a una delle isole del Mar cinese meridionale contese tra la Cina e i suoi antagonisti. Un attacco limitato e facile, inutile a livello geostrategico, ma ottimo per la propaganda. Peraltro, l’uso di missili ipersonici, quelli usati per uccidere Soleimani, potevano garantire un attacco a sorpresa imparabile.
La reazione cinese
Scenario impossibile? Non per il Global Times: “Qualunque sia il collegamento tra questi messaggi – scriveva dopo l’esercitazione di cui sopra – dobbiamo avvertire la parte statunitense che attaccare le isole cinesi di Nansha o altri obiettivi cinesi utilizzando i droni MQ-9 Reaper è un atto di guerra”,
“[…] La nostra unica opzione è colpire duramente gli aggressori […]. La Cina abbatterà gli aerei da guerra statunitensi in arrivo. […] Se quegli aerei produrranno danni reali alle isole e alle barriere coralline cinesi, colpiremo le piattaforme e le basi da cui decollano”. Il GT è estremo e non riflette il pensiero del governo, ma a volte è utilizzato da Pechino per mandare messaggi.
Ma al di là di scenari fantasmagorici, la tensione parossistica di quei giorni e la scarsa comunicazione tra i due rivali, aveva generato un ulteriore pericolo, che il Dragone potesse interpretare male una qualche operazione militare Usa, immaginando un attacco inesistente.
Tanto che un’esercitazione militare americana prevista in quei giorni fu rimandata dal Segretario alla Difesa. Insomma, al netto di possibili scivoloni da parte del generale, le sue telefonate hanno evitato pericoli.
Woodward, Trump e Milley
Resta che il tiro incrociato su Milley sembra avere come causale il fatto che abbia assecondato Biden sul ritiro dall’Afghanistan. Una colpa neocon e soci non possono perdonare.
Né possono permettersi la sua permanenza a Capo dell’esercito, dato che il ritiro dall’Afghanistan è parte di quel progetto di riposizionamento delle forze Usa che essi non condividono.
Di interesse anche il fatto che a innescare tutto sia stato Woodward, che al termine delle presidenziali silurò Trump rivelando che gli aveva confidato di aver banalizzato il coronavirus pur essendo conscio della sua pericolosità.
Un’accusa alla quale Trump rispose, ma con esito incerto. Se si tiene presente che ha perso le elezioni a causa della pandemia, si comprende la portata dirompente dello scandalo.
Bizzarro che la persona che ha contribuito ad affondare Trump ora sia portato sugli scudi dai trumpiani per far fuori il generale Milley. O forse no, dato che certi ambiti sanno confondere le acque e suscitare tempeste nelle quali sanno navigare meglio di altri.