Cina e Taiwan: le proteste e la debacle elettorale della Tsai
Tempo di lettura: 3 minutiGli occhi del mondo sono focalizzati sulla Cina, dove proseguono le proteste in varie città, innescate dei lunghi i lockdown con i quali il governo ha affrontato la pandemia.
Tali proteste, seppur spontanee (il malcontento è reale), sono alimentate dalle usuali Psi-ops, così che l’iniziale ribellione contro i lockdown – che ha attraversato tutto il mondo, con analoghe manifestazioni di piazza e repressioni ben più volente da parte delle forze dell’ordine – sta prendendo sempre più i connotati di un regime-change, con annesse richieste di dimissioni di Xi Jinping, da poco confermato alla guida del Dragone.
Le proteste e i social
Tale ingerenza indebita (dall’estero) è confermata dalle notizie che giungono da varie fonti, secondo le quali la polizia sta controllando i cellulari dei manifestanti per scoprire se usano Vpn o Telegram o altri social usati in altre circostanze per alimentale le proteste e coordinarle (allo scopo si usano bot che intensificano e incanalano la rabbia verso gli obiettivi desiderati).
D’altronde, in questi anni recenti i social si sono rivelate armi molto più efficaci di quelle convenzionali. È grazie a queste armi digitali, infatti, che il Dipartimento di Stato Usa ha conseguito risultati eccezionali nel mondo arabo e altrove, mettendo alle corde e/o rovesciando governi non graditi.
Ad oggi, però, appare arduo che le manifestazioni possano riuscire ad abbattere il governo di Pechino, ma sembra comunque che possano avere un qualche effetto frenante sull’economia, cosa che certo non dispiace ai suoi avversari.
Non solo, chi sta alimentando le manifestazioni spera che la situazione porti a una nuova Tienanmen, cioè a una repressione violenta tale da devastare l’immagine di Pechino nel mondo, così da isolarla come avvenne dopo quel sanguinoso ’89.
Il calcolo potrebbe rivelarsi errato, dal momento che a Hong Kong il Dragone ha dato prova di aver superato certe brutalità del passato, riuscendo a sedare le durissime proteste di piazza (apertamente sostenute dai suoi avversari geopolitici) senza eccessiva violenza. Il bilancio finale parla, infatti, di due vittime: una attribuita alla polizia e una ai manifestanti.
Ma la situazione è ancora in via di sviluppo e gli scenari restano ancora tutti aperti, anche i più drammatici.
Taiwan: perdono gli indipendentisti a oltranza
Mentre i riflettori sono puntati sulle turbolenze della terraferma, pochi si sono accorti di quanto avvenuto nell’isola che da tempo è al centro delle controversie tra il Dragone e l’Occidente e che vede uno sviluppo imprevisto e nefasto per i nemici di Pechino.
Infatti, la beniamina dell’Occidente, la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, ha subito una debacle imprevedibile: nelle elezioni amministrative la sua parte politica ha subito una sconfitta elettorale secca, tanto da costringerla a dimettersi dalla carica di presidente del partito progressista (Reuters).
A vincere un po’ dappertutto, anche a Taipei, è stato il Kuomintang, nonostante l’accesa critica dei progressisti, che accusano il vecchio partito nazionalista cinese di essere una sorta di quinta colonna del Dragone.
Tale, infatti, è stato il taglio che la Tsai ha voluto imprimere alla campagna elettorale, certa che l’allarme sull’annessione alla Cina in caso di vittoria dei suoi avversari l’avrebbe premiata.
Non gli è andata bene. I cittadini di Taiwan, secondo la Reuters, hanno badato a questioni più concrete, trovando risposte nelle proposte dell’opposizione. Ma questa lettura appare alquanto limitata.
Se avesse vinto la Tsai, infatti, si sarebbe parlato di un referendum contro Pechino e di una trionfale vittoria dell’indipendentismo. Così la sua sconfitta non può che avere un significato opposto. Non tanto un anelito alla ricomprensione dell’isola nell’ecumene cinese, quanto di una sconfitta secca di quanti stanno alimentando i conflitti tra l’isola e la terraferma.
Il punto, come scriveva Natasha Cassam sul New York Times, è che a tanti taiwanesi non piace affatto l’escalation che si sta giocando sulle loro teste. Tanti di essi vorrebbero che fosse conservato lo status quo, che vede l’isola convivere da anni con un’ambiguità che gli permette di esercitare un’indipendenza de facto, ma non dichiarata, così da preservare i proficui rapporti con Pechino. E questi tanti, ad oggi, sono maggioranza.