La Cisgiordania: una prigione a cielo aperto

La Cisgiordania continua ad essere stretta nella morsa dell’occupazione israeliana che, da oltre un mese, ha intensificato i suoi attacchi in tutta la regione. Gli sfollati dei campi profughi di Jenin, Tubas e Tulkarem sono oltre 40mila e difficilmente potranno cambiare la loro attuale condizione, dal momento che Israel Katz, ministro della Difesa israeliano, ha dichiarato esplicitamente che “non potranno ritornare nelle loro case”.
Inoltre, l’agenzia Wafa riferisce che dall’inizio dell’anno sono stati arrestati almeno 580 palestinesi nella sola Cisgiordania (che si sommano ai 14.500 imprigionati dal 7 ottobre 2023), mentre i raid israeliani hanno ucciso 81 persone, di cui 13 bambini, come riportato dall’ONU (da sommare agli 884 morti registrati dall’ottobre del 2023, di cui almeno 224 bambini).
Il 7 ottobre ha cambiato tutto
La cronaca della Cisgiordania riporta quotidianamente notizie di raid dell’IDF, attacchi di coloni, sparatorie e la sistematica distruzione di case, infrastrutture (anche sanitarie) e scuole. Mentre tutta l’attenzione mediatica è concentrata sugli sviluppi della tregua a Gaza, Israele spadroneggia in Cisgiordania, rendendo, di fatto, la vita impossibile al popolo palestinese. A tal proposito, Gideon Levy scrive su Haaretz che Israele sta propalando odio a piene mani, che si ritorcerà contro di esso perché “sta istigando la terza Intifada”.
Una terra, quella al di là del fiume Giordano, radicalmente cambiata dal 7 ottobre. “L’occupazione, che non è mai stata esattamente progressista, è diventata più brutale che mai. Il giorno dopo il 7 ottobre, Israele ha di fatto imprigionato i tre milioni di residenti della Cisgiordania”.
Infatti, Levy denuncia una questione poco battuta dai media internazionali, ovvero “l’impossibilità [per i palestinesi] di muoversi liberamente in tutta la Cisgiordania” a causa di una fitta rete di posti di blocco. Se ne contano circa 900, alcuni permanenti, altri temporanei, predisposti sempre in virtù della tanto inflazionata “sicurezza nazionale” di Tel Aviv.
Praticamente ogni sei chilometri si incontra un posto di blocco dell’esercito israeliano. Non convenzionali check point, ma sbarramenti sorvegliati da soldati “dal grilletto facile”.
Ad affliggere gli sfortunati palestinesi che tentano di spostarsi su quella che è la loro terra non sono solo le violenze e gli arresti arbitrari – che già di per sé spiegherebbero bene la drammatica situazione in cui sono costretti – ma anche il fatto che a ogni posto di blocco “attendono ore ed ore prima di poter proseguire” per la loro strada; ciò nella migliore delle ipotesi, quando cioè non sono uccisi, arrestati o costretti a tornare sui loro passi.
Un intero popolo ridotto alla fame
Va da sé che per molti cittadini palestinesi tale situazione ha reso impossibile proseguire l’attività lavorativa, rendendo difficile, spesso impossibile, provvedere alle proprie famiglie. Situazione aggravata dal fatto che nell’immediato post 7 ottobre 150mila persone hanno perso il lavoro a causa del veto di recarsi in Israele.
Tutte persone che “non avevano nulla a che fare con il massacro lungo il confine di Gaza. Cercavano solo di provvedere alle loro famiglie. Israele ha tolto loro la possibilità di una vita dignitosa, che difficilmente tornerà. Centinaia di migliaia di persone sono state condannate a una vita di miseria”.
Eppure, i posti di blocco sono solo una parte del quadro. Qualcosa è cambiato anche tra i soldati dell’occupazione. “Forse invidiano i loro commilitoni a Gaza – spiega Levy – o forse è semplicemente lo spirito che ora domina nell’esercito israeliano. La maggior parte di essi non ha mai trattato i palestinesi come li tratta ora”.
“Non si tratta solo della facilità con cui si uccide o dell’uso di armi mai impiegate prima in Cisgiordania, come i caccia e droni. È soprattutto il modo come vedono i palestinesi: alla stregua di ‘animali umani’, proprio come gli è stato detto per gli abitanti di Gaza”.
Non un guerra al terrorismo, ma una Nakba
I coloni e i loro sostenitori, tra cui i leader politici di estrema destra, primi fra tutti Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, si sono calati con entusiasmo in questo drammatico scenario. Per loro, “si tratta di un’opportunità storica di vendetta”.
Vogliono, e stanno premendo forte sull’acceleratore in questa direzione, “una guerra su vasta scala in Cisgiordania”, per “realizzare il loro grande piano di espulsione di massa”, che per essi rappresenta “l’unico modo per risolvere la questione palestinese”.
Parallelamente alle violenze perpetrate delle forze israeliane, l’annessione de facto della Cisgiordania prosegue anche in altro modo. Ieri il Times of Israel ha ribadito quanto scriveva Haaretz tempo addietro, e cioè che “il 2024 è stato l’anno dei record per gli avamposti illegali insediati in Cisgiordania”.
Agglomerati urbani provvisori che ben presto diventeranno insediamenti, sulla scia di quanto avvenuto di recente – il governo ha legalizzato in modo retroattivo dieci avamposti illegali e stanziato massicci finanziamenti per le future costruzioni.
Il prossimo futuro, per Gideon Levy, è irrimediabilmente tracciato. La strategia attuata da Tel Aviv, che prevede la proliferazione di insediamenti, la distruzione delle strade e dei sistemi fognari con i bulldozer, lo sgombero dei campi profughi e lo smembramento della Cisgiordania grazie ai 900 posti di blocco, “non è una guerra al terrorismo”, ma “una Nakba”.