Il confronto Oriente-Occidente e l'oppio del Myanmar
Nessun Paese arabo, a parte il succube Bahrein, si è aggregato alla coalizione formata dagli Stati Uniti per contrastare le operazioni militari degli Houti contro le navi dirette ai porti israeliani in transito nel Mar Rosso. Una notizia in sé, che denota ancora una volta l’allontanamento dei Paesi del Golfo dal nume tutelare di un tempo.
Certo, sembra che gli Emirati volessero essere della partita, ma non possono, ma questa è questione non essenziale ai fini descrittivi, ché l’impedimento – dato dalla vicinanza dei razzi Houti e iraniani – indica che temono più i vicini che la temuta superpotenza di un tempo.
La linea di faglia infiammata tra Oriente e Occidente
Quanto ai sauditi, resta da capire se riusciranno a far la pace con gli Houti dopo anni in cui li hanno combattuti nella guerra dello Yemen, cosa che Washington vuole impedire. Sarebbe uno smacco per la diplomazia statunitense, proprio ora che Washington sta rilanciando la sua narrativa dei cattivi Houti, che poi sono cattivi a fasi alterne, a seconda degli interessi Usa, e per questo inseriti o tolti alla bisogna dalla lista delle organizzazioni terroristiche internazionali.
Ma a fotografare ancor più il nuovo dinamismo della regione, l’incontro tripartito, avvenuto a Pechino il 17 dicembre, tra il vice-ministro degli Esteri dell’Iran, Ali Baqeri, il suo omologo dell’Arabia Saudita Waleed Abdulkarim El Khereiji e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. L’intesa tra Iran e Arabia Saudita patrocinata dalla Cina tiene e logora l’influenza americana su Riad.
A margine si può annotare che oggi il Dragone ha accolto il Primo ministro russo Mikhail Mishustin, che, dopo aver incontrato il suo omologo Li Qiang, ha avuto un incontro anche con il presidente Xi Jinipig, a rimarcare quanto la Cina tenesse a questa visita (chissà se Mishustin era latore di un messaggio di Putin…).
L’altro mondo, quello orientale, si rinsalda, mentre l’Occidente, benché appaia più allineato di un tempo a Washington – conseguenza della guerra ucraina che ha portato l’Europa sotto la rigida tutela della Nato – si sfalda, come denota l’allontanamento di tanti Paesi un tempo allineati e coperti con esso.
Si può notare che la linea di faglia che separa i due imperi – quello d’Oriente, che insiste sul binomio russo-cinese, e quello d’Occidente guidato da Washington – che va dall’Ucraina all’Iran, sia oggi surriscaldata e infiammata da due guerre.
La guerra di Gaza, infatti, al di là delle feroci conflittualità locali, è entrata giocoforza in questo scontro più alto, da cui la spinta dei circoli iper-atlantisti e neocon per allargarla più possibile; a frenare, però, sono i circoli più realisti d’Occidente, i quali temono che una guerra di grande scala in Medio oriente eroda altre residue energie dal cuore dell’Impero d’Occidente, finendo per perdere l’Impero stesso (secondo essi deve conservare tali energie per sostenere in maniera adeguata il confronto con la Cina).
Il confronto che dilania il Myanmar
Interessante, nel quadro di tale confronto, quanto sta avvenendo in Myanmar (già Birmania), il cui il governo autoritario, gestito dai militari, conserva prolifici rapporti con Russia e Cina. Gli Stati Uniti, che hanno imposto pesanti sanzioni al Paese fin dalla presa di potere dei militari, stanno sostenendo attivamente la ribellione, composta da diversi gruppi agglomerati sotto l’ombrello di un fantomatico governo ombra.
Aiuti non letali, quelli di Washington, però, come annota l’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) “gli Stati Uniti hanno una storia di interpretazione piuttosto vaga del termine ‘non letale’. Il sostegno non letale ai ribelli siriani, ad esempio, comprendeva il miglioramento delle loro capacità operative sul campo di battaglia”.
Il supporto USA si dipana nulla importando che tali gruppi ribelli “non condividono una causa comune, per non parlare di un’unica strategia politica. Il governo ombra non è riuscito a ottenere il sostegno di tutti i principali gruppi etnici e il suo braccio armato è privo di un comando militare unificato. I gruppi etnici ribelli – alcuni dei quali hanno precedenti di brutalità – sono spesso più interessati a garantire l’autonomia alle loro comunità che a costruire un sistema democratico federale inclusivo, e alcuni sono disposti a collaborare con la giunta per ottenerla. A complicare ulteriormente le cose, le rivendicazioni territoriali di questi gruppi che a volte si sovrappongono”.
Myanmar, attivismo USA e oppio
Il risultato è che Washington ha alimentato la guerra tra governo e ribelli, incrementando il numero delle vittime, commenta l’ASPI. Non solo, Gli USA hanno tentato di usare l’ASEAN – l’organismo che raggruppa i principali Stati della regione – per supportare tale attivismo in favore della asserita democrazia che dovrebbe nascere dalla vittoria dei ribelli, e ciò ha impedito all’ASEAN di fungere da intermediario e risolvere la crisi, sviluppo che porterebbe a una distensione della stretta del governo centrale.
L’attivismo USA pro-ribelli, annota l’ASPI, ha lasciato campo libero alla Cina, che di recente ha colto un successo diplomatico, dal momento che, come annota la Reuters, è riuscita a far incontrare i capi di alcune fazioni ribelli con esponenti del governo.
L’attivismo statunitense in loco, peraltro, ha una coda usuale: come avvenuto per l’Afghanistan, insieme alla ribellione sostenuta dagli States sono fiorite le piantagioni d’oppio, tanto che ora il Myanmar è diventato il principale produttore di oppio del pianeta (BBC), mentre la malapianta è sparita dall’Afghanistan dopo il ritiro Usa, come rilevato dalle Nazioni Unite.
Storia locale, quella del Myanmar, ma di certo interesse e di rilevanza globale. Da seguire.