La Siria e la crisi dei missili cubani
Tempo di lettura: 2 minuti“Per Trump, che ama “vincere”, non c’è vittoria alcuna in Siria. Ma ha ancora la possibilità di peggiorare le cose”. Così scrive Ishaan Tharoor sul Washington Post.
Il cronista ricorda come finora gli Usa si siano adoperati a sostenere il regime-change siriano in modo indiretto, perché “l’alternativa – uno sforzo bellico in piena regola – era comprensibilmente sgradita”.
Il tempo per l’attacco alla Siria è scaduto
Ma il “tempo di intervento è ormai passato'”, aggiunge Tharoor riprendendo quanto affermato da Emile Hokayem dell’Istituto internazionale di studi strategici, “un tempo sostenitore della lotta contro Assad”.
Così, si legge ancora sul WP, “potrebbero esserci raid limitati e auto-soddisfacenti, ma finché non c’è una prospettiva o una strategia più ampia per l’intero conflitto, si può solo alimentare l’escalation senza raggiungere alcun obiettivo”.
E il “rischio di una tale escalation è reale”, aggiunge il cronista americano, dal momento che, come visto quando Israele ha attaccato una base siriana lo scorso sabato, è altamente probabile uno scontro diretto tra Israele e Iran. Cosa che avrebbe “molte cheerleaders a Washington”, ma è da evitare.
Peraltro si rischiano escalation più globali, dal momento che “qualsiasi attacco americano a obiettivi militari siriani presenta anche la possibilità di un conflitto con la Russia”.
L’escalation dietro l’angolo
Esponenti russi, dettaglia Tharoor, hanno avvertito sui rischi di una riedizione della “crisi dei missili cubani”, stavolta “nel Levante e in una prospettiva di un conflitto molto più pericoloso”.
“Trump deve capire che parliamo della possibilità di un’escalation nucleare se andremo allo scontro tra l’esercito USA e quello russo”, ha affermato Igor Korotchenko, un erudito militare russo e membro del consiglio consultivo del Ministero della Difesa. “Tutto può accadere molto rapidamente e la situazione può sfuggire al controllo dei politici”, ha aggiunto.
Trump, spiega ancora Tharoor, non ha un piano vero e proprio, se non effettuare un raid mirato “per poi fuggire”.
E conclude citando un articolo di al Monitor nel quale James Dobbins, un ex diplomatico dell’amministrazione Obama, sostiene la necessità di un ritiro dalla Siria previo accordo con Damasco che preveda un ritiro delle truppe iraniane e garanzie per i curdo siriani.
Così riprendiamo la conclusione di Dobbins: “La cosa migliore che si possa sperare in questa fase avanzata è che la Siria del dopoguerra non sia peggiore della Siria pre-bellica. Ciò significa venire a patti con il regime a condizione che tutte le milizie straniere se ne vadano. Lo stesso Assad vorrà che questi combattenti stranieri vadano via quando non avrà più bisogno di loro. Prima arriva quel giorno, meglio è”.
Prospettiva che ricalca l’avversione di Washington per Assad, ma dà anche una via di uscita dalla crisi accetabile per russi, siriani e iraniani. Detto questo, già il fatto che l’America si inizi a interpellare sui rischi insiti in questa crisi alimenta qualche speranza che se ne possa uscire senza danni irreparabili.
L’immagine della crisi cubana è pertinente. Anche se allora al potere negli Stati Uniti c’erano figure più lucide delle attuali. Vedremo.