La lettera che denuncia il conformismo ideologico dilagante
Tempo di lettura: 3 minutiUna lettera aperta contro il politically correct, che negli ultimi tempi ha assunto un carattere così aggressivo da risultare una minaccia alla libertà di pensiero e di espressione.
A firmarla sono scrittori, giornalisti, esponenti della cultura, americana e non, bianchi e neri. Non un gruppuscolo di suprematisti bianchi, anzi, tanto che la lettera addirittura addita il presidente Trump come una minaccia per le libertà civili.
Tra i firmatari il guru della sinistra americana Noam Chomsky, intellettuali del calibro di Francys Fukuyama, lo storico David Greenberg, lo scrittore Mark Lilla, docenti universitari, luminari e giornalisti vari. Promotore dell’iniziativa, Thomas Chatterton Williams, scrittore afroamericano, direttore di Harpers e collaboratore del New York Times.
Nella missiva, pubblicata su Harpers e rilanciata da altre testate, si registra come le accese polemiche anti-razziste e la forte polarizzazione politica hanno immesso una nuova variabile nel dibattito culturale-politico, imponendo criteri che “tendono a indebolire le nostre regole sulla libertà di parola e sulla tolleranza delle differenze a favore della conformità ideologica“.
Le lotte per la libertà contro le discriminazioni, infatti, spesso prendono la forma del “dogma” o scadono nella “coercizione” altrui. Invece, “l’inclusione democratica cui aspiriamo può essere raggiunta solo se critichiamo il clima intollerante che si è manifestato da tutte le parti”.
“Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato“, si legge. Si registra, infatti, una forte “‘intolleranza verso le visioni divergenti“, che si realizza con l’additare alla “pubblica vergogna” quanti la pensano diversamente, condannati così “all’ostracismo”. Inoltre, è comune “la tendenza a dissolvere complesse questioni politiche in una cieca certezza morale“.
Un clima insano generalizzato, continua la missiva, nel quale è ormai usuale chiedere “rapide e severe punizioni per le trasgressioni percepite del linguaggio e del pensiero”. Richieste che vengono soddisfatte dalle autorità preposte con “punizioni affrettate e sproporzionate”.
Ed elenca: “I direttori vengono licenziati per la pubblicazione di pezzi controversi; i libri vengono ritirati per asserite mendacità; ai giornalisti è vietato scrivere su determinati argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere letterarie in classe […] i responsabili di enti e istituzioni sono allontanati per quelli che a volte sono solo dei goffi errori”.
Il risultato di tutto questo “è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza correre il rischio di incorrere in ritorsioni“.
Ormai “scrittori, artisti e giornalisti” sono consapevoli che “se si discostano” da una visione che gode di un consenso generalizzato “o mancano di sufficiente zelo nel manifestare la propria adesione” alla stessa mettono a rischio non solo la propria reputazione e la carriera, ma addirittura il “posto di lavoro” e i loro stessi “mezzi di sussistenza”.
Ribadendo l’importanza della libertà di pensiero, di parola e di espressione, anche a costo di errori, i firmatari della missiva dichiarano che non può esistere giustizia senza libertà e rigettano una lotta per la giustizia che calpesti la libertà altrui.
Quadro inquietante, ma reale, del mondo attuale e dei fermenti culturali che l’attraversano. Non è cosa nuova: anche in passato si sono avute lotte sociali e politiche in nome della giustizia a scapito delle libertà altrui (con esiti nefasti).
Il punto è che nell’era dei social e dei media globali tutto si è fatto più veloce, dilatato, virale. La rete, nella quale si è ormai impigliati in maniera più o meno irrevocabile, peraltro, si presenta come parte terza – la cui terzietà sarebbe assicurata da misteriosi quanto esoterici algoritmi -, ma in realtà gestisce narrazioni e modula, allargando o restringendo le sue maglie, ciò che è gradito e ciò che non lo è. “Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe….” (Eugenio Montale, “In limine“).