Fabio Mini e il tempo delle guerre infinite
Tempo di lettura: 5 minutiPubblichiamo un estratto della prefazione del libro “Ucraina, Europa, mondo. Guerra e lotta per l’egemonia mondiale” di Giorgio Monestarolo (Asterios, Trieste, pp.106, euro 13). L’autore è ricercatore presso il Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Università della Svizzera italiana e docente di Storia e Filosofia al liceo Vittorio Alfieri di Torino.
La prefazione è del generale Fabio Mini, che tra le altre cose è stato generale di Corpo d’Armata, Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo (KFOR). Figura autorevole, che sa bene cosa sia la guerra e, per questo, quanto preziosa sia la pace e quanto urge perseguirla. Nel volume, alcune citazioni di Piccolenote – non avremmo mai pensato di finire su un libro… – particolare che spinge vieppiù a pubblicizzarlo presso i nostri lettori.
L’autore di questo libro è ricercatore e insegnante di Storia e Filosofia e la sua opera riguarda le guerre di oggi, ma da storico che non si limita a ribadire i concetti e i legami del presente con il passato, unisce la testimonianza diretta con la conoscenza delle “cose”, che è il presupposto base della sapienza. Da filosofo, nel libro ha profuso saggezza facendo da ponte, ma anche da riequilibratore, tra ciò che accade e ciò che viene raccontato da coloro che ignorano o manipolano la storia.
Questi narratori si dedicano alla confezione e alla diffusione di una versione imposta dalla propaganda di guerra che purtroppo fa partire la storia dal luogo, dal fatto e dal momento più convenienti per i loro committenti e datori di lavoro, per i loro interessi, ma anche per le proprie idee, fisime, frustrazioni e crudeltà. In questo tipo di comunicazione c’è sempre un aggressore e un aggredito: e così la guerra di oggi in Ucraina è cominciata nel 2022, con l’aggressione russa, quella di Gaza nel 2023 con il raid palestinese.
Quale fosse la situazione del momento e cosa fosse successo prima e perché non è importante. E non è importante nemmeno ciò che succede subito dopo e può succedere tempo dopo. In Ucraina si racconta una guerra convenzionale che prescinde dalla feroce repressione ucraina sui propri cittadini russofoni negli otto anni precedenti e dalle indicibili sofferenze che il popolo ucraino deve sopportare per anni a venire.
Nel frattempo, gli ucraini devono assistere stremati alla distruzione sistematica del proprio Paese e al cinico e macabro pavoneggiare dei propri leader in trasferta permanente nelle sfarzose capitali di mezzo mondo alla ricerca di fondi e armi. Gli ucraini ormai sanno di dover continuare a perdere per far vincere e prosperare le corporazioni economiche e politiche della guerra.
A Gaza si racconta una guerra di punizione come rappresaglia antiterroristica che tale è solo perché Israele non ha mai riconosciuto la popolazione palestinese come legittima sovrana del proprio territorio nonostante le risoluzioni in tal senso delle Nazioni Unite.
Mentre con gli altri Stati arabi che l’hanno attaccato militarmente, Israele ha istituito e mantenuto un rapporto di guerra e inimicizia giuridicamente riconosciuto, nei riguardi del popolo palestinese ha escluso qualsiasi rapporto classificandolo come terrorista.
Le azioni e insurrezioni palestinesi sono sempre state giudicate in base ai metodi e tattiche di lotta piuttosto che in base agli scopi e ai diritti legittimi. Non c’è dubbio che l’attacco del 7 ottobre di Hamas sia stato condotto con metodi terroristici, ma la reazione israeliana non è stata né di guerra né di operazione antiterroristica. Colpendo indiscriminatamente la popolazione ha adottato egualmente sistemi terroristici e comunque ha condotto operazioni che rientrano nel quadro dei crimini di guerra e contro l’umanità.
Ciò nonostante, entrambe le vicende, Ucraina e Gaza, sono trattate da smemorati cronisti come guerre di liberazione del mondo dal Male assoluto di turno. In realtà non si tratta di guerre né convenzionali né speciali: nessuna delle tante avventure militari organizzate e condotte dal cosiddetto Occidente negli ultimi trent’anni rispetta i criteri di razionalità, legittimità degli scopi, proporzionalità, sicurezza, economia delle forze che caratterizzano la guerra e altre forme di esercizio della forza nella disciplina dei rapporti fra gli Stati e i popoli.
I nemici sono sempre senza diritti, senza legittimità. Non sono nemmeno persone e comunque inferiori persino agli animali. Per il nemico non valgono mai le stesse regole di cui chi combatte si reputa paladino, anche quando egli stesso le infrange. Regole che si dovrebbero rispettare non solo per questioni d’umanità (e già sarebbe tanto), ma anche perché il conflitto armato possa giuridicamente e tecnicamente definirsi “guerra”.
In particolare, nessuno dei conflitti moderni combattuti dall’Occidente civilizzato ha rispettato il criterio enunciato il secolo scorso dal generale W.T. Sherman: “Lo scopo della guerra è produrre una pace migliore”. Se le operazioni a Gaza non hanno le caratteristiche di guerra non hanno neppure quelle della lotta alla criminalità e al terrorismo.
La sistematica distruzione di edifici, tunnel e infrastrutture civili porta solo a stragi incontrollate, alla punizione collettiva selvaggia e alla sopraffazione e liquidazione etnica. Di tutto questo sono certamente responsabili il governo israeliano e le sue forze armate.
Ma non è una sparuta minoranza violenta che tratta tutti i palestinesi, ovunque essi siano, come colpevoli dei crimini commessi da un gruppo di militanti. La grande maggioranza degli israeliani apertamente o in silenzio considera i palestinesi come banditi che non possono essere innocenti, come animali che non possono e non devono avere diritti umani.
I media occidentali sono prodighi nell’amplificare le voci delle madri israeliane che hanno perduto i loro figli o degli ostaggi liberati. In Israele non una voce si alza per raccogliere il pianto delle migliaia di madri palestinesi rimaste senza figli e il pianto delle decine di migliaia di orfani. E questo sì è un crimine collettivo di cui è complice chi in Israele e nel mondo lo nasconde, sostiene e giustifica.
Tuttavia sembra che questo aspetto non interessi nessuno, neppure mentre appare sempre più chiaro che Israele sta rischiando non solo di allargare il conflitto ma di perdere consenso internazionale.
L’autore è anche filosofo e le sue argomentazioni sollecitano riflessioni più ampie della semplice osservazione degli effetti umani naturali e paradossali del passaggio dalle guerre alle pseudo-guerre.
Carl von Clausewitz è ritenuto il primo e unico quasi-filosofo della guerra occidentale. In realtà ha espresso qualche idea sulla natura della guerra riportata soltanto in un capitolo del trattato Della guerra, una compilazione postuma di suoi scritti, appunti, riflessioni e definizioni pubblicata grazie allo zelo di una sconsolata vedova e alcuni amici.
Il suo più noto aforisma, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, è il più abusato e come minimo, se mai sia stato vero per le guerre napoleoniche, da oltre un secolo è fuori contesto. La guerra è la negazione della politica, è il suo fallimento. Le guerre perse sono le conseguenze di una politica sbagliata e quelle vinte presuppongono sempre un cambiamento di politica o meglio l’abbandono di una politica consolidata. La guerra non prosegue ma sostituisce gli scopi della politica, le priorità, le leggi.
Un altro aforisma abusato e fuori contesto è il famoso “si vis pacem para bellum”. È diventato il padre nobile della deterrenza, in realtà è una condanna. La pace non si ottiene più preparando la guerra, anzi si minaccia la pace inducendo l’avversario, specie se più debole, non tanto a rinunciare alla guerra quanto a condurla con altri mezzi anche estremi.
In ogni caso, nessuno più prepara la guerra con l’intenzione di non farla, e se la guerra tra le maggiori potenze diventa impossibile per il timore della distruzione reciproca, si preparano alacremente e si conducono le pseudoguerre senza limiti, senza regole, senza vergogna, senza fini e senza fine.
In tale ambito la pace è diventata un “pericolo”. Gli appelli alla pace o soltanto alle tregue spaventano chi teme di non riuscire a completare il suo piano distruttivo. Per questo, la maggior parte delle sconfitte e delle vittorie non sono state definitive. Per questo ogni trattato di pace è un compromesso temporaneo accettabile anche se contiene i semi del conflitto successivo. E, comunque, le guerre sono diventate talmente costose e sanguinose che la sola prosecuzione è già un crimine e una sconfitta.
Ma le idee balzane e bellicose sono dure a morire. Israele ha intrapreso la via della soluzione finale nei riguardi dei palestinesi. L’Ucraina l’ha fatto nei confronti dei suoi russofoni e ha indotto tutto l’Occidente a intraprenderla nei riguardi della Russia. Non bisogna essere dei veggenti per immaginare che in nessuno dei due casi potrà esserci una soluzione finale senza un disastro continentale, come minimo.