Gaza: accordo in fumo. L'arroganza Usa non aiuta
L’accordo Israele-Hamas non è andato in porto, nonostante l’amministrazione Usa abbia esercitato forti pressioni su Tel Aviv perché lo accettasse, inviando a tale scopo in Israele Tony Blinken. Il Segretario di Stato americano ha reso esplicita tutta la contrarietà dell’amministrazione americana al niet del governo israeliano con dichiarazioni molto forti contro la mattanza di Gaza, le prime dall’inizio della guerra.
Usa, cercare la pace e fomentare la guerra
Blinken ha infatti detto che Israele non può usare il 7 ottobre come “licenza per disumanizzare gli altri”, come recita il sottotitolo del Timesofisrael. Critiche alle quali ha voluto dare copertura politica, da oltreoceano, la madrina di Blinken, Hillary Clinton, affermando che Netanyahu è “inaffidabile” e che dovrebbe “andarsene”.
Non per nulla, prima di lasciare il paese, Blinken si è incontrato con i due membri del Gabinetto di guerra più ragionevoli e che, nelle intenzioni dei democratici americani, potrebbero prendere il posto dell’attuale premier, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, con quest’ultimo che, più meno in contemporanea, criticava aspramente Netanyahu.
Certo, gli Usa hanno le loro ragioni per cercare la pace, e non certo umanitarie, che sono tante a articolate, su tutte la paura del danno di immagine causato dalla loro complicità nei massacri, che sta allontanando potenziali elettori, preziosi per le prossime presidenziali, e creando distanze con i Paesi arabi e del terzo mondo.
Detto questo, non ci sarebbe che da lodare l’iniziativa di Blinken, se non fosse che è minata da una scarsa lucidità e dall’arroganza. Lo denota il fatto che non si usa il mezzo di pressione più ovvio, cioè il diniego degli aiuti a Tel Aviv, anzi gli Usa continuano a sostenerla in tutti i modi e in tutte le arene.
Ma a minare i suoi sforzi anche il fatto che sta tentando di utilizzare questa guerra per suoi scopi. L’iniziativa più eclatante in tal senso è la guerra contro gli Houti, che al di là dello scopo dichiarato, cioè ripristinare la libertà di navigazione nel Mar Rosso, e quello non dichiarato, evitare a Israele di badare anche a questo fronte (dal quale sono partiti attacchi contro il porto di Eliat), ha un altro scopo, più occulto, riportare l’Arabia Saudita sotto l’influenza occidentale.
Yemen: parola d’ordine sabotare gli accordi tra Iran e Arabia Saudita
La nuova guerra yemenita ha reso impossibile l’accordo di pace tra Riad e Houti, che era stato praticamente finalizzato. Riportiamo da Antiwar: “Gli Stati Uniti stanno intenzionalmente bloccando un accordo di pace nello Yemen tra Houthi e Arabia Saudita, come ha riferito il New York Times ”
“La decisione degli Stati Uniti di designare di nuovo gli Houti come ‘terroristi globali” […] bloccherà il pagamento dei lavoratori del settore pubblico che vivono nello Yemen controllato dagli Houthi, senza paga per anni. Il pagamento dei lavoratori è stata una delle richieste fondamentali degli Houthi e fa parte della prima fase dell’accordo di pace”.
La pace con gli Houti è uno dei fondamenti del processo distensivo Iran – Arabia Saudita. da cui l’importanza del sabotaggio Usa (che però non ha interrotto i contatti tra Riad e Teheran; così su Tansim Agency: “L’ambasciatore dell’Arabia Saudita a Teheran ha consegnato un messaggio scritto dal re saudita in risposta alla lettera del presidente iraniano sulla crisi di Gaza”).
Non solo, Blinken sta cercando di forzare la normalizzazione dei rapporti tra Riad e Tel Aviv, che ha assicurato con dichiarazioni improvvide anche in questo viaggio in Israele, un intervento che ha suscitato la furibonda reazione delle autorità saudite, le quali hanno ribadito che la normalizzazione ci sarà solo dopo la nascita dello Stato palestinese.
L’arroganza Usa non riesce più ad imporsi
Non solo il fronte saudita, l’America sta tentando di forzare anche in Libano, tentando di convincere Beirut a “liberare” i confini tra il paese dei cedri e Israele, suscitando anche in questo caso la reazione irritata dei suoi interlocutori, che non capiscono perché devono cedere territori a Israele (aree, peraltro, importanti: al largo di quelle coste ci sono significativi giacimenti di gas, già oggetto di contesa tra i due Stati).
Insomma, invece di mostrarsi mediatore imparziale e disinteressato tra le parti, cosa necessaria per condurre in porto la difficile trattativa per chiudere la guerra, gli Stati Uniti mescolano la questione più importante della pace, alla quale pure tengono per le ragioni succitate, a meschini interessi di parte, nella convinzione di potere imporre i propri desiderata ai suoi interlocutori.
Vanno in tal senso anche le dichiarazioni della Clinton sulla deposizione di Netanyahu, che in questo modo ha reso esplicita la posizione dei suoi sodali nell’amministrazione Biden sul premier.
Se a Bibi non viene data via di uscita se non la prigione, ché quello l’aspetta una volta deposto in tal modo, non ha alternative, dal suo punto di vista, che continuare la guerra (dal canto suo, Biden aveva detto l’opposto, tentando di aprire una via di uscita: “La soluzione a due Stati non è impossibile con Netanyahu“).
Questo tripudio di arroganza, quella israeliana e quella americana, rende più arduo chiudere la mattanza di Gaza, che anzi è rilanciata con l’annunciata apertura della campagna israeliana contro Rafah, dove sono stipati più di un milione di rifugiati palestinesi,
Al di là di queste complicazioni, che restano, le trattative tra Hamas e Israele, tramite mediatori, vanno avanti. In tale temperie, un cenno di certo interesse. Ieri Putin si è incontrato con il rabbino capo delle Russia Berel Lazar e il presidente della federazione delle comunità ebraiche della Russia Alexander Boroda, con i quali ha parlato della guerra e degli ostaggi (curiosamente, lo stesso giorno in cui lo zar ha rilasciato un’intervista a Tucker Carlson).
Infine, va sottolineato che, nello stesso giorno in cui Netanyahu ha risposto picche a Blinken, gli Usa hanno assassinato un leader Kata’ib Hezbollah in Iraq. La tempistica non è affatto casuale, ne parleremo nella nota successiva.