Gaza: di trattative e proteste di piazza

“Il Qatar ha presentato ad Hamas una nuova proposta degli Stati Uniti per ripristinare il cessate il fuoco a Gaza attraverso il rilascio dell’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander, ha dichiarato giovedì un alto diplomatico arabo al Times of Israel”.
“In cambio della liberazione di Alexander, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump rilascerà una dichiarazione in cui chiederà la calma a Gaza e la ripresa dei negoziati per un cessate il fuoco permanente, ha affermato il diplomatico, confermando le notizie diffuse da Channel 12 e dal sito di notizie Axios”.
Piccola luce in questo tunnel oscuro che sembra non aver fine, che però nel prosieguo dell’articolo del Timesofisrael viene offuscata. Così il media israeliano: “Il diplomatico arabo ha espresso scetticismo sul fatto che Hamas possa accettare di rilasciare Alexander solo per ottenere una dichiarazione di Trump”, ma anche per lo scetticismo riguardo “la volontà di Israele di aderire agli accordi”.
In attesa di sviluppi su questo fronte, dove lo scetticismo è d’obbligo anche per le capacità dimostrate da Netanyahu nel sabotare tutte le trattative pregresse, va spesa qualche riga sulle manifestazioni che si registrano a Gaza nelle quali i palestinesi chiedono la fine della guerra.
Vogliono vivere
Proteste contro Hamas, secondo i media israeliani e occidentali; contro Israele, secondo Hamas. Narrative opposte, ma che coincidono laddove i palestinesi, chiedendo la fine delle ostilità, chiedono anzitutto a Israele di fermare le diuturne stragi.
Ne accenna un articolo di Jack Khoury pubblicato da Haaretz, che raccoglie alcune testimonianze dei convenuti, mentre in un altro articolo, lo stesso cronista denuncia “l’ipocrisia” sottesa “all’euforia” della leadership israeliana per tale sviluppo. Infatti, “all’improvviso si scopre che non tutti i gazawi sostengono Hamas e non tutti sono sacrificabili”.
Ciò stride, infatti, con le dichiarazioni di tanti politici israeliani, secondo i quali tutti i residenti di Gaza erano complici di Hamas e su tutti pendeva la maledizione di Amalek, evocata esplicitamente da Netanyahu all’inizio dell’invasione della Striscia e ribadita poi.
Ma al di là dell’incongruenza, Khoury rileva che le proteste, per avere successo, hanno “bisogno di un orizzonte, qualcosa che certamente non può essere prospettato dall’attuale governo di Israele” Infatti, si chiede Khoury, cosa viene offerto ai palestinesi se davvero riuscissero a defenestrare Hamas?
Israele, scrive il cronista di Haaretz “non offre nulla se non il controllo sulle vite dei gazawi tramite un’amministrazione e il coordinamento della sicurezza, esattamente il modello della Cisgiordania. E se i gazawi non lo vogliono, possono emigrare volontariamente in Sudan, Somalia e Somaliland”.
I corsivi sono nostri e servono anzitutto a ricordare che il modello Cisgiordania attualmente è in leggera crisi a causa della rinnovata aggressione israeliana, peraltro ricordata dallo stesso cronista. Un’aggressione tanto brutale che un editoriale di Haaretz l’ha connotata come “gazaficazione“. Da qui il paradosso di proporre per Gaza il modello Cisgiordania mentre quest’ultima subisce il modello Gaza… quanto poi all’emigrazione volontaria dei gazawi inutile spendere parole.
In alternativa al futuro prospettato dal governo israeliano – imposto sulla punta delle baionette se si sta alle dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir, che ha dichiarato imminente l’occupazione militare della Striscia – “nella migliore delle ipotesi offrono loro [ai gazawi] un mandato arabo o egiziano o un’autonomia disfunzionale. Ogni altra opzione non ha il placet israeliano ed è etichettata come turpitudine di sinistra”.
Le proteste e la realtà
“Israele – conclude Khoury – potrebbe davvero aiutare la protesta se dichiarasse che, dopo l’era di Hamas, ci sarà speranza e la possibilità di cambiare il futuro. Ma la richiesta di rovesciare Hamas per legittimare il ripristino dell’occupazione avrà come unico esito quello di indebolire quanti hanno trovato il coraggio e sono scesi nelle strade devastate di Gaza. Perché quelli che scendono in piazza cercano di vivere con dignità: né sotto il dominio di Hamas, né sotto lo stivale di Israele”.
Fin qui il commento di Khoury, al quale va aggiunto che tali proteste non sono affatto emerse per caso, anche se quasi tutti quelli che vi hanno partecipato erano in perfetta buona fede. Non può sfuggire, infatti, la concomitanza tra le manifestazioni e il cambiamento di strategia adottato di recente da Israele, che ha definito i membri dell’ala politica di Hamas target legittimi (violando in tal modo le Convenzioni di Ginevra).
Con tale strategia, scriveva Yaniv Kubovich su Haaretz, Tel Aviv “spera che bande armate non leali all’organizzazione, i cosiddetti ‘clan’, prendano il sopravvento allorché si indebolirà il controllo del territorio da parte di Hamas”. Di fatto, è quel che sta accadendo.
Infine, rileviamo una certa distonia di fondo nel giubilo del governo israeliano per le proteste di piazza di Gaza, dal momento che esso appare molto meno indulgente nei confronti delle proteste interne contro l’erosione delle istituzioni democratiche attuata da Netanyahu, che si intrecciano con quelle che chiedono la stessa cosa dei gazawi: la fine della guerra (con la sola variante che nel caso israeliano le vite da salvare non sono quelle dei manifestanti stessi, ma quelle degli ostaggi). Proteste represse brutalmente, all’opposto di quanto avvenuto a Gaza, almeno finora, dove i manifestanti hanno potuto esprimersi liberamente. Bizzarrie che ci limitiamo a registrare e che appartengono ai misteri del Medio oriente.